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OMCI - Organismo di Mediazione

Omci - Organismo di Mediazione e Conciliazione Italia

09
Giugno
2023

Amministratori di condominio "incompresi"

Gli amministratori di condominio sono gli eterni professionisti non riconosciuti per legge, un unicum tutto italiano;

  • Amministratore di condominio, professione non regolamentata
  • Requisiti iscrizione (facoltativa) associazioni di categoria
  • Aspetti deontologici
  • Unicum italiano

Amministratore di condominio, professione non regolamentata

"Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità" diceva Camillo Benso, conte di Cavour. Se si tratta di dignità professionale, però, diventa arduo rivendicarne una propria in assenza di qualsivoglia riconoscimento giuridico.

E' questo il caso degli amministratori di condominio, eterni professionisti non riconosciuti ex lege.

Sì, per legge, perché il primo a non riconoscerli è proprio il legislatore, considerato che li inserisce nel limbo delle professioni non regolamentate, disciplinate (si fa per dire) dalla L. 4/13, che impone loro il diritto/dovere di contraddistinguere la propria attività in qualsiasi documento "con l'espresso riferimento, quanto alla disciplina applicabile, agli estremi della presente legge": una sorta di generico bollino sulla carta intestata, insomma, nulla di piSe vogliono, tali professionisti hanno "il diritto di costituire associazioni senza l'obbligo di iscrizione ad un albo" e, sempre se vogliono, tali associazioni si possono iscrivere nell'Albo delle Associazioni degli Amministratori di condominio depositato presso il MISE, un registro di natura meramente amministrativa che raccoglie semplici autodichiarazioni di possedere i requisiti previsti dalla L.220/12. Il risultato di tali "diritti facoltativi" è che delle circa 52 associazioni di categoria presenti sul territorio nazionale, solo 17 sono quelle iscritte al MISE.

Requisiti iscrizione (facoltativa) associazioni di categoria

Ma quali sono i requisiti per iscriversi facoltativamente alle associazioni di categoria, costituite sempre su base volontaria, di cui alla L. 220/12, meglio nota come "riforma del condominio"?

Si legga l'art. 71 bis disp. att. c.c.: "godere dei diritti civili (ossia essere umani), non aver subito condanne "per delitti contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni" e non essere "stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione" (ossia non essere delinquenti), "non essere interdetti o inabilitati" (ossia essere capaci di intendere e volere); non essere annotati "nell'elenco dei protesti cambiari" (quindi essere più o meno solvibili e solventi), "avere conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado" (possedere il c.d. straccio di diploma); "aver frequentato un corso di formazione iniziale e svolgono attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale". A ben vedere gli unici due requisiti che distinguono l'amministratore dal quisque de populo sono l'avere un diploma e una formazione. Lo sconforto diventa totale se si prosegue nella lettura del citato articolo, perché proprio questi due requisiti non sono necessari per l'amministratore interno, ossia quello nominato tra i condomini dello stabile. Con un solo comma, il legislatore lascia intendere che l'amministratore lo può fare chiunque, anche il vicino di pianerottolo. Con il successivo decreto ministeriale n. 140 del 2014 si è cercato di dare una parvenza più dignitosa inserendo l'obbligo di formazione periodica, il che, però, ha scatenato la fantasia di organismi vari che offrono a prezzi stracciati sedicenti corsi abilitanti che alla fine rilasciano meri 'attestati di frequenza', pezzi di carta validi solo per riempire pareti, creando confusione tra gli utenti e facendo concorrenza agli enti certificati e gli ordini di riferimento accreditati dal Ministero, ossia gli unici realmente abilitanti. La new entry nel campo della formazione è la laurea triennale in amministrazione condominiale proposta dalla neonata Facoltà di Esperto amministrativo Amministratore di Condominio, la quale, però, fa parte non di una università iscritta al MIUR, ma di una "accademia universitaria" privata. Singolare che per accedere al corso sia previsto un test di ammissione, quando per esercitare la professione di amministratore non è richiesto nulla di simile. Infine, che l'amministratore non sia un professionista come tutti gli altri è confermato dal fatto che non è obbligato ad avere la pec: come noto, è obbligatoria dal primo ottobre 2020 per professionisti ed imprese, dove per professionisti si intende solo quelli iscritti a ordini o collegi. Ed è un obbligo talmente importante che se i professionisti non si adeguano sono soggetti alla sanzione disciplinare della sospensione. Non esistendo un ordine per gli amministratori di condominio che li obblighi ad avere una PEC, e non essendo obbligatorio iscriversi ad una associazione di categoria, gli amministratori "freestyle" non iscritti ad albi professionali né che operano in forma d'impresa possono non avere la pec e, se ce l'hanno, possono non iscriverla nei registri pubblici della posta certificata, il che impedisce, ad esempio, la notifica di atti giudiziari via pec, diventata con la riforma Cartabia la regola, relegando la notifica tramite posta ordinaria a eccezione. Tirando le somme, trova conferma che la professione di amministratore non è riconosciuta per legge e per esercitarla non è richiesto un preventivo esame abilitante come per le professioni riconosciute, ossia quelle ordinistiche. Non esiste un albo degli amministratori, la cui iscrizione è conditio sine qua non per l'esercizio della professione unitamente al superamento di uno specifico esame abilitante avente fonte normativa, ma un albo delle associazioni degli amministratori, un mero registro che contiene l'elenco di associazioni costitute su base volontaria, di natura privatistica e senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva (art. 2 L.4/13), quindi non enti pubblici come gli ordini professionali regolamentati dal Ministero di Grazia e Giustizia e retti da un organo di autogoverno, ossia il Consiglio, eletto dagli iscritti. Anche sotto l'aspetto deontologico la professionalità non è garantita: mentre la violazione del Codice deontologico, di fonte normativa, comporta sanzioni di graduale gravità fino alla radiazione, quindi al divieto di esercizio della professione, la violazione delle eventuali norme di comportamento autodettate dalle associazioni degli amministratori comporta, al massimo, la cancellazione da quell'albo: ricordando che la costituzione in associazione è volontaria, l'iscrizione ad essa pure, l'epurato sarà libero di iscriversi ad altra associazione o a nessuna, oltre a poter continuare a fare l'amministratore. Tutela per gli amministrati e per la dignità della categoria? Nessuna. Anche perché, dato che l'incarico all'amministratore trova fonte nel contratto di mandato (art. 1703 c.c.), per revocarglielo serve pure una valida delibera assembleare oppure ricorrere al giudice per gravi irregolarità (art. 1129 c.c., co.11). L'amministratore di condominio, quindi, di fatto e anche un po' di diritto è equiparato a un privato cittadino qualsiasi, al quale si chiede solo un obbligo formativo, soddisfatto il quale potrà svolgere una professione non riconosciuta che comporta competenze multidisciplinari (perché l'amministratore deve essere un po' avvocato, commercialista, ingegnere, consulente del lavoro, psicologo, ecc. ecc.) e l'assunzione di responsabilità sempre più gravose e per di più civilmente, amministrativamente e penalmente rilevanti. Il paradosso si fa grottesco ricordando che perfino l'assicurazione professionale è eventuale ex lege: in forza dell'art. 1129 c.c., "l'assemblea può subordinare la nomina dell'amministratore alla presentazione ai condòmini di una polizza individuale di assicurazione". Per fortuna soccorrono le associazioni di categoria, che però, come ricordato sopra, sono soggetti di diritto privato costituite su base volontaria e senza vincolo di rappresentanza esclusiva e non è obbligatorio iscriversi ad esse. Comparando la situazione degli amministratori di condominio in Italia con i colleghi europei, si ricava che nel nostro Paese sono quasi più del triplo, probabilmente proprio perché tale incarico viene svolto spesso da singoli condòmini (pensionati e dopolavoristi) che si improvvisano amministratori per "far risparmiare". Più in generale, l'Italia è l'unica nazione che non regola la professione di amministratore, pur aumentandone costantemente le responsabilità, basti pensare al delirio dei bonus edilizi. Non solo: in Italia gli amministratori sono anche i meno pagati d'Europa, € 8/mese per unità immobiliare contro, ad esempio, € 25/mese in Germania. Che poi, sul punto, fa specie calcolare un compenso a unità immobiliare, perché il metro di misura dovrebbe essere la qualità e non la quantità. Lo stesso dicasi sull'oramai anacronistico obbligo di nominare un amministratore di condominio solo quando i condòmini sono più di otto (art. 1129 c.c.), come se palazzine di sette appartamenti fossero esenti dalle stesse problematiche di quelle più grandi per quanto attiene, tanto per fare un esempio banale, al rispetto delle normative anti-incendio e di sicurezza. Forse, piuttosto che inventarsi costi abilitanti da vendere su Groupon, sarebbe giunta l'ora di dare reale e concreta dignità ad una professione che la merita e che la aspetta davvero da troppo tempo.

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Ultimo aggiornamento Venerdì, Giugno 09 2023
  
06
Giugno
2023

Leasing immobiliare e clausola di salvaguardia: spetta alla banca dimostrare il rispetto del tasso soglia;

La clausola che impone di osservare il tasso soglia è oggetto di un’obbligazione contrattuale ed è onere della società di leasing dimostrarne l’adempimento (Cass. Ordinanza 15 Maggio n. 13144/2023)

SINTESI: Il Codice civile dispone che, qualora tra le parti siano convenuti interessi usurari, la relativa clausola sia nulla e nessun interesse sia dovuto (art. 1815 c. 2 c.c.). Per questa ragione, gli istituti di credito, onde evitare di perdere gli interessi a causa di una declaratoria di nullità, sono soliti inserire nei contratti di mutuo (o di leasing immobiliare) una clausola di salvaguardia. Per scongiurare che la fluttuazione del tasso convenzionale di mora possa superare il “tasso soglia” imposto dalla disciplina antiusura (art. 2 legge 108/1996), con la suddetta clausola, la banca (o la società di leasing) si impegna a non applicare mai, per tutta la durata del rapporto, interessi in misura superiore a quella massima consentita dalla legge. Tale pattuizione assume rilievo sotto il profilo della ripartizione dell’onere probatorio. Infatti, trattandosi di una specifica obbligazione, che la banca assume nei confronti del soggetto finanziato, grava sulla banca stessa l'onere della prova di aver regolarmente adempiuto all'impegno assunto. Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ordinanza 15 maggio 2023, n. 13144. La pronuncia è interessante perché ribadisce che la disciplina antiusura trova applicazione sia per gli interessi corrispettivi (ed ai costi posti a carico della parte finanziata nell’ipotesi di regolare adempimento del contratto), sia per gli interessi moratori (ed ai costi posti a carico della parte come conseguenza dell'inadempimento). Al fine di valutare l’usurarietà (o meno) del tasso non è possibile applicare il criterio della sommatoria tra tasso corrispettivo e tasso di mora, atteso che le due tipologie di interessi hanno presupposti diversi.

La vicenda

Un istituto di credito viene evocato in giudizio dalla società con cui ha concluso un contratto di leasing, a tasso variabile, e dal fideiussore, per un importo di circa 184 mila euro. Per quanto qui di interesse, gli attori chiedono di accertare sia l’usurarietà del finanziamento sia non la debenza degli interessi (ex art. 1815 c. 2 c.c.) e, conseguentemente, dichiarare la società creditrice di circa 33 mila euro. Gli attori chiedono, altresì, di accertare, l’invalidità dell’applicazione degli interessi debitori e anatocistici, oltre al risarcimento del danno. In primo e secondo grado, le domande vengono rigettate. Al fine di dimostrare il tasso usurario, gli attori hanno sommato i tassi degli interessi moratori e corrispettivi, affermando che il saggio risultante sia superiore a quello fissato dalla disciplina antiusura. Secondo i giudici di merito, la suddetta sommatoria è scorretta, perché riguarda elementi eterogenei: gli interessi corrispettivi rappresentano la remunerazione del capitale residuo preso a mutuo, mentre gli interessi moratori sono dovuti a causa dell’inadempimento del mutuatario. Inoltre, l’interesse è stato ritenuto non usurario stante la presenza della clausola di salvaguardia contenuta nel contratto di leasing e considerata legittima. Si giunge così in Cassazione.

Premessa: differenza tra interessi corrispettivi e moratori

Gli interessi di pieno diritto o corrispettivi (art. 1282 c.c.) sono quelli prodotti dal denaro in virtù del principio della naturale fecondità (C.M. BIANCA, Diritto Civile. L’obbligazione, 4, Milano, Giuffrè, 1993, § 92). Il denaro è un bene fruttifero, in altre parole si può dire che il denaro genera altro denaro, sotto forma di interessi. Gli interessi corrispettivi sono dovuti a titolo di remunerazione (funzione remunerativa), in cambio del vantaggio che il debitore consegue grazie alla disponibilità del denaro altrui. In altre parole, il fatto che al debitore sia data la possibilità di servirsi di un capitale viene remunerato tramite la corresponsione degli interessi. Gli interessi moratori traggono origine da un ritardo nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria (art. 1224 c.c.), ossia un’obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro. Al soggetto che riceve con ritardo la prestazione spettano, dal giorno della mora, gli interessi per il ritardo, anche se non ha subito alcun danno; rappresentano una sorta di ristoro per il ritardo (la mora) con cui il creditore riceve il pagamento (funzione risarcitoria). Un particolare tipo di interessi moratori è rappresentato dagli interessi commerciali di cui al d.lgs. 231/2002.

Riassumendo:

  • gli interessi dovuti per il mero uso di denaro altrui sono corrispettivi (art. 1282 c.c.),
  • gli interessi pagati a causa del ritardo nell’adempimento sono moratori (art. 1224 c.c.).

Mentre gli interessi corrispettivi sono dovuti a prescindere dalla colpa del debitore, gli interessi moratori non sono dovuti se il debitore dimostra che il ritardo è dipeso da un fatto a lui non imputabile.

Una volta chiarita la differenza tra le due tipologie di interessi, torniamo alla disamina della decisione.

La disciplina antiusura si applica anche agli interessi moratori

I ricorrenti lamentano che i giudici di merito abbiano escluso la sommatoria dei tassi degli interessi corrispettivi e moratori ai fini dell’applicazione della normativa antiusura; inoltre, anche senza ricorrere alla somma dei saggi, quello moratorio, da solo, risulta superiore al “tasso soglia”. Infine, censurano il fatto che la clausola di salvaguardia sia stata ritenuta valida, solo perché sufficientemente chiara e non diretta a far conseguire vantaggi illeciti a nessuna delle parti.

La Suprema Corte considera fondate le doglianze nei limiti che seguono.

In merito alla disciplina antiusura, la giurisprudenza ha chiarito che essa trova applicazione non solo con riguardo agli interessi corrispettivi, ossia gli interessi posti a carico del mutuatario per il regolare adempimento del contratto, ma anche con riferimento agli interessi moratori, vale a dire gli interessi che gravano sul mutuatario in caso di inadempimento. Le Sezioni Unite hanno affermato che la disciplina in materia di usura intende colpire la promessa di qualsiasi somma che risulti usuraria:

  • «la disciplina antiusura si applica agli interessi moratori, intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso» (Cass. SS. UU. 19597/2020).

Una volta acclarato che la disciplina in materia di usura opera anche in relazione agli interessi moratori, occorre stabilire quando il tasso dell’interesse di mora risulti usurario e quali conseguenze abbia sul contratto l’eventuale accertata usurarietà dei soli interessi moratori. In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che:

  • la soglia antiusura per gli interessi moratori è diversa e più alta di quella prevista per gli interessi corrispettivi,
  • l’usurarietà del tasso di interesse moratorio non incide sulla validità della pattuizione degli interessi corrispettivi né sull’obbligo di pagamento degli stessi (sempre che la clausola relativa agli interessi corrispettivi risulti rispettosa della normativa antiusura).

No al principio di sommatoria dei tassi degli interessi corrispettivi e di mora

Riassumendo, la giurisprudenza (Cass. 14214/2022) è costante nell’affermare che:

  • il tasso degli interessi moratori è soggetto alla disciplina antiusura,
  • i due tassi (per interessi moratori e corrispettivi) vanno valutati diversamente e separatamente.

Pertanto, non è possibile una disamina caratterizzata dalla ricostruzione di un tasso unitario, frutto della sommatoria dei singoli saggi. In altre parole, è errata la tesi dei ricorrenti secondo cui occorrerebbe operare una sintesi dei due tassi da confrontare con la soglia antiusura. Infatti, la finalità e la funzione delle due tipologie di interessi è diversa:

  • gli interessi corrispettivi sono gli interessi di pieno diritto conseguenti all’adempimento del contratto
  • gli interessi moratori derivano dall’inadempimento o dal ritardato adempimento.

Per valutare la soglia di usurarietà non è possibile ricorre al “principio di sommatoria” dei tassi degli interessi corrispettivi e di mora, così creando un tasso unico, giacché, in tal modo, non si distingue tra costi correlati al regolare adempimento del contratto e costi correlati al suo inadempimento (Cass. 14214/2022). Pertanto, tale criterio1 è incompatibile con i principi espressi dalle Sezioni Unite (Cass. SS.UU. 19597/2020), nonché dalla giurisprudenza successiva (Cass. 26286/2019, Cass. 31615/2021; Cass. 14214/2022). Tasso moratorio superiore al tasso soglia: pattuizione nulla

I ricorrenti lamentano che, anche senza effettuare la sommatoria dei tassi, nella fattispecie in esame, il tasso di mora sia superiore rispetto a quello soglia. Il contratto di leasing, stipulato nel 2007, prevedeva un tasso del 13,02% per gli interessi moratori a fronte del “tasso soglia” fissato al momento della conclusione del contratto al 9,51% (come da decreto ministeriale relativo al trimestre aprile, maggio, giugno 2007). La legge in materia di usura (art. 2 legge 108/1996) dispone la rilevazione trimestrale del tasso effettivo globale medio e rinvia alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dei decreti ministeriali recanti tale tasso. I suddetti decreti costituiscono «atti amministrativi di carattere generale ed astratto, oltre che innovativo, e quindi normativo, perché completano i precetti di rango primario in materia di usura inserendo una normativa di dettaglio». Tali decreti vanno, dunque, considerati come fonti integrative del diritto, che il giudice è tenuto a conoscere a prescindere dalle allegazioni delle parti, in base al principio iura novit curia (Cass. 35102/2022). Alla luce di quanto sopra, la pattuizione degli interessi moratori nella misura del 13,02% deve considerarsi nulla. Infatti, è nullo il patto con cui «si convengano interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui alla l. n. 108 del 1996, art. 2, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali e calcolato senza maggiorazioni o incrementi» (Cass. 27442/2018).

Clausola di salvaguardia e onere della prova gravante sulla banca

La nullità di cui sopra non può escludersi – come, invece, ha ritenuto il giudice di merito – per la presenza di una clausola di salvaguardia “sufficientemente chiara e valida” non essendo diretta a far conseguire vantaggi illeciti alla banca.Nel caso di specie, il contratto di leasing conteneva una clausola di salvaguardia a tenore della quale nel caso in cui, alla data di stipula del contratto, l'interesse di mora come determinato avesse superato il tasso soglia, si sarebbe proceduto alla rideterminazione dell'interesse al punto percentuale inferiore a quello soglia. La giurisprudenza ha rilevato che la clausola di salvaguardia serve ad evitare che, in presenza di un tasso variabile o modificabile unilateralmente dalla banca, la sua fluttuazione non oltrepassi mai il limite stabilito dalla legge (art. 2 c. 4 legge 108/1996). Sotto il profilo pratico, la clausola non opera a favore del cliente ma a vantaggio dell’istituto di credito. Infatti, nel caso in cui il tasso risultasse usurario, la relativa pattuizione sarebbe nulla e non sarebbero dovuti interessi (art. 1815 c. 2 cc). La clausola di salvaguardia, quindi, assicura che non venga mai superata la soglia dell'usura "oggettiva", escludendo, in tal guisa, il rischio che il tasso convenzionale sia dichiarato nullo e che nessun interesse sia dovuto alla banca (Cass. 26286/2019). La clausola di salvaguardia è legittima in quanto posta a presidio del rispetto del precetto d'ordine pubblico che fa divieto di pattuire interessi usurari. La presenza della clausola nel contratto ha delle conseguenze sotto il profilo della ripartizione dell’onere della prova. Infatti, essendo l'osservanza del “tasso soglia” oggetto di un’obbligazione contrattuale, «alla logica della violazione della norma imperativa si sovrappone quella dell'inadempimento contrattuale, con conseguente traslazione dell'onere della prova in capo all'obbligato, ossia alla banca» (Cass. 26286/2019).

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Ultimo aggiornamento Martedì, Giugno 06 2023
  
02
Giugno
2023

Liti agrarie: tentativo di mediazione “preventivo” anche per la riconvenzionale;

SINTESI: Il tribunale di Cosenza con sentenza del 15/03/2023 n° 470/23, afferma che il tentativo obbligatorio di conciliazione in materia agraria investe anche la domanda riconvenzionale;

Tentativo di mediazione nelle controversie agrarie

Il tentativo obbligatorio di conciliazione in materia agraria, che deve essere sempre “preventivo”, investe anche la domanda proposta in riconvenzionale, a pena di improponibilità della domanda stessa. Così il tribunale di Cosenza nella sentenza n. 470/2023  del 15/03/2023 decidendo una controversia tra eredi su un terreno agricolo ricevuto in successione dal padre.

La vicenda

Gli eredi del proprietario del terreno chiedevano lo scioglimento del contratto d’affitto del fondo concesso dal de cuius al genitore dell’odierno resistente, per intervenuto decesso dell’affittuario del terreno, in mancanza dei presupposti di cui all’art 49L 203/82 in punto di subentro previsto nella sola ipotesi di eredi coltivatori diretti, per come accertato da precedente sentenza del tribunale di Cosenza, oltre al rilascio immediato del terreno e la condanna al pagamento dell’indennità da occupazione sine titulo fino alla data del decesso dell’affittuario. Il resistente evidenziava, dal canto suo, che non era stato esercitato il diritto di recesso ex art 1627 c.c., norma da ritenersi applicabile al caso di specie poiché l’art. 49 L. 203/1982 andava circoscritto all’ipotesi di contratto di affittanza a coltivatore diretto. E in via riconvenzionale chiedeva il pagamento dell’indennizzo di cui all’art 43 L. 203/1982.

La decisione

Il tribunale rileva anzitutto che la pretesa muove dall’assunto che il dante causa del resistente fosse un coltivatore diretto e che non vi fosse stato un subentro in favore dell’erede, in ragione dell’art. 49, ult. comma, L. 203/82, che presuppone, la sussistenza in capo a quest’ultimo della qualità di coltivatori diretti ovvero di imprenditore a titolo principale, requisito questo non riscontrato nel diverso giudizio definito con sentenza dal medesimo tribunale. Nella specie, a fronte di tali specifiche allegazioni, il resistente negava l’applicazione dell’art. 49 L. 203/82 senza tuttavia specificamente contestare la qualità di coltivatore diretto in capo all’affittuario. Per cui, il giudice riteneva doversi dichiarare sciolto il contratto di affitto e condannava il resistente, detentore sine titulo, al rilascio immediato del fondo, libero e sgombero da persone, animali e cose. Accoglieva anche la domanda di condanna del resistente al pagamento di una indennità per occupazione senza titolo del terreno in questione.

Tentativo di mediazione e riconvenzionale

Quanto alla domanda riconvenzionale spiegata dal resistente, il giudice dichiarava la stessa inammissibile, poiché non preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art 11 del D.lgs 150/2011. Sul punto, difatti, afferma il giudicante, “la norma suddetta riproduce il contenuto precettivo dell’art. 46 della legge n. 203 del 1982, sottoponendo alla condizione di proponibilità le domande giudiziali che hanno ad oggetto le controversie ‘in materia di contratti agrari’ (comma 1) e, per orientamento pacifico della giurisprudenza di legittimità, il tentativo di conciliazione in materia agraria deve essere sempre ‘preventivo’, cioè attivato prima dell’inizio di qualsiasi controversia (cfr. Cass. Civ. n. 2046/10)”. L’inciso secondo cui “chi intende proporre in giudizio una domanda relativa a una controversia” in materia agraria, lascia intendere, prosegue il tribunale, “che anche la domanda proposta in riconvenzionale è soggetta alla condizione di ‘proponibilità’, la cui mancanza, comporta la definizione della causa con sentenza dichiarativa di improponibilità della relativa domanda”. Per cui, in definitiva, il tribunale accogliendo in toto la domanda degli eredi, dichiara improponibile anche la domanda riconvenzionale del resistente, condannandolo alle spese di lite.

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Ultimo aggiornamento Venerdì, Giugno 02 2023
  
31
Maggio
2023

Come cambia, con la riforma Cartabia, il primo incontro di mediazione dal 30 giugno 2023: da incontro preliminare ed informativo a primo passo verso l’accordo;

Gli obiettivi della riforma Cartabia in materia di mediazione e le modalità di perseguimento.
La riforma Cartabia ha apportato modifiche anche al D. Lgs. 28/2010, con l’obiettivo di ampliare il campo di applicazione della procedura di mediazione, rendendola una concreta alternativa al procedimento giudiziario.
Tale obiettivo è perseguito con più modalità:

  • per un verso, il legislatore adopera un approccio coercitivo, ampliando il numero delle materie per le quali la mediazione è condizione necessaria di procedibilità ed inasprendo le conseguenze della mancata partecipazione, con l’introduzione di sanzioni;

  • per altro verso, con approccio inclusivo e collaborativo, porta alla luce la centralità delle parti nella mediazione e, soprattutto, nella buona mediazione, modificando le modalità di svolgimento della procedura, a partire dal primo incontro.

Le modifiche all’art. 8 del D. Lgs. 28/2010.
Sotto tale aspetto, rilevanti sono le novità che la riforma Cartabia ha introdotto apportando sostanziali modifiche all’art. 8 del D. Lgs. 28/2010.
1° Comma – Domanda di mediazione e primi adempimenti dell’organismo
Dal 30 giugno 2023 il termine per il primo incontro non sarà più di 30 giorni ma compreso tra i 20 ed i 40 giorni dal deposito della domandal’ampliamento della tempistica vuole favorire l’adeguata preparazione del primo incontro.
Sono stati inoltre meglio precisati gli oneri di comunicazione a carico dell’organismo successivi alla ricezione della domanda di mediazione, così da fornire immediatamente alle parti tutte le informazioni utili per il più efficace avvio della procedura.
2° Comma – Sostituisce art. 5 c. 6 – Effetti della domanda sulla prescrizione
Il contenuto dell’art. 5, comma 6, soppresso dalla riforma, viene riportato nel nuovo comma 2 dell’art. 8, dando così maggior completezza alla norma. Anche in tale ricollocazione, gli effetti sono invariati: la comunicazione della domanda di mediazione alla controparte continua a produrre sulla prescrizione gli stessi effetti della domanda giudiziale e impedisce, per una sola volta, la decadenza.
E’, però, stata introdotta la possibilità, per la parte che ne abbia interesse, di comunicare all’altra parte la domanda di mediazione già presentata, al fine di interrompere la prescrizione o impedire la decadenza, fermo restando l’obbligo dell’Organismo di procedere alla convocazione di cui al comma 1.
Questa è una delle nuove previsioni che pongono la parte al centro del procedimento di mediazione: l’istante non deve temere eventuali lentezze procedurali dell’Organismo ma può rendersi parte attiva per la tutela dei propri interessi, in un’ottica di incentivazione all’utilizzo della procedura.
3° Comma – Ripropone art. 8 c. 2 - Svolgimento del procedimento – Invariato
Nella nuova formulazione della norma, il comma 3 sostituisce il precedente comma 2 e prevede che il procedimento si svolga senza formalità presso la sede dell’Organismo o nei luoghi indicati dal regolamento.
La riforma Cartabia ha poi introdotto i successivi commi 4, 5 e 6, oltre all’art. 8 bis che dettagliano la previsione generale del comma 3.
4° e 5° Comma – Partecipazione personale – Delega alla conciliazione – Assistenza legale.
Il comma 4, ribadito il principio generale per cui le parti sono tenute a partecipare personalmente alla procedura di mediazione, introduce la possibilità, per giustificati motivi, di delegare un rappresentante, purché informato sui fatti e munito dei poteri per conciliare la lite.
Ancora una volta, il legislatore ha voluto ampliare gli strumenti partecipativi a disposizione delle parti. Con lo strumento della delega si avvicina alla mediazione chi, altrimenti, sarebbe impossibilitato a partecipare e, quindi, scoraggiato rispetto alla fruibilità del procedimento; inoltre, nel caso di impedimenti temporanei, concomitanti con gli incontri, la delega consente di procedere ugualmente, evitando così il rischio di far fallire la mediazione o di prolungarne eccessivamente la durata.
L’espressa previsione della possibilità di partecipare mediante un delegato ha reso necessario stabilire in modo chiaro che il mediatore deve verificare la sussistenza dei poteri rappresentativi delle persone comparse davanti a lui e darne atto a verbale.
Il comma 5, al fine di riordinare e razionalizzare le disposizioni in tema di procedimento di mediazione, ricolloca nell’art. 8 il principio secondo cui, nei casi di mediazione obbligatoria per legge, ossia nelle ipotesi di cui all’articolo 5, comma 1 e quando la mediazione sia demandata dal giudice, ciascuna parte deve essere assistita dal proprio avvocato.
6° Comma – Funzione di facilitare del mediatore e dovere di lealtà e cooperazione delle parti e degli avvocati.
Il comma 6 del D. Lgs. 28/2010 è un’unione tra vecchia e nuova formulazione della norma che ben evidenzia la ratiodella riforma.
Esso ripropone infatti il contenuto del passato comma 3, richiamando il dovere preliminare del mediatore di informare le parti sulle modalità di svolgimento della mediazione e la necessità che egli si adoperi affinché le parti raggiungano un accordo.
La nuova norma, a fianco dei doveri del mediatore, introduce altresì i doveri delle parti, sancendo che le stesse, e gli avvocati che le assistono cooperino in buona fede e lealmente affinché si realizzi un effettivo confrontosulle questioni oggetto di mediazione.
Resta l’obbligo, in capo al mediatore, di redigere verbale del primo incontro, facendolo sottoscrivere alle parti.
Il comma 6 pone l’accento sulla centralità della parte e sull’importanza del primo incontro, non più finalizzato a una mera informativa sulla procedura, ma alla concreta collaborazione di tutti i soggetti coinvolti - parti, avvocati e mediatore – per la ricerca di una composizione della lite; in tale ottica, sono altresì potenziati gli oneri di verifica delle condizioni da parte del mediatore e le conseguenze della mancata partecipazione.
7° Comma – Periti – Possibile accordo sulla producibilità della perizia
Nel nuovo comma 7 è stato riproposto il contenuto del precedente comma 4, che prescrive la possibilità, per il mediatore, di avvalersi di esperti, i cui compensi sono stabiliti nel regolamento di procedura dell’organismo.
E’ invece stata introdotta la nuova previsione per cui le parti, al momento della eventuale nomina dell’esperto, possono accordarsi per stabilire che la relazione da questi redatta potrà essere prodotta nell’eventuale processo davanti al giudice. 
L’accordo di produrre la relazione nell’eventuale giudizio deroga ai limiti di utilizzabilità del documento formato nella procedura di mediazione, derivanti dal dovere di riservatezza sancito dall’articolo 9. In caso di produzione, si è previsto che tale documento venga valutato ai sensi dell’articolo 116, primo comma, del codice di procedura civile.
Tale disposizione, in armonia con le generali finalità della delega in materia di mediazione, concorre ad incentivare le parti ad avvalersi di tale procedura, proprio in quanto consente, se non si raggiunge l’accordo di conciliazione, di avvalersi proprio delle attività tecniche espletate durante la procedura stragiudiziale.                                                                                                                                    Conclusioni
La riforma Cartabia si è posto l’obiettivo di aumentare l’utilizzo della procedura di mediazione. In alcune previsioni tale fine viene perseguito con modalità coercitive e punitive, ma l’art. 8, nella sua nuova formulazione, pone l’accento sulla centralità delle parti, responsabilizzandole: esse non sono più meri spettatori o soggetti passivi di una procedura diretta dal mediatore, bensì le reali fautrici del procedimento e, coadiuvate dal mediatore, possono essere artefici di un accordo.PS: Con la riforma cartabia inoltre le mediazione dovranno farle tutti, infatti la normativa dice chiaramente che il Responsabile dell'organismo, le deve far girare, (Tranne se vi è un solo Mediatore in quella zona), altrimenti devono essere date a tutti mediatori, Pena Ispezione assicurata dall'ispettorato del Ministero della Giustizia, che convocherà il Mediatore, per non aver rispettato quanto detto dal Responsabile dell'organismo. Infatti, come detto svariate volte, il Mediatore non è un  lIbero Professionista che fa ciò che vuole, ma è gerarchicamente sottoposto al Responsabile dell'organismo e ovviamente alle leggi. Inoltre se vi sono illeciti da Parte del Mediatore, sarà nostra cura Fare in modo di risolvere il tutto, se la colpa invece è delle Parti, bè, Ve la siete Cercata (anche xchè sono proprio le parti i soggetti diretti alla mediazione), se invece è il Vostro avvocato che vi ha consigliato male guardate che avete la possibilità di Recedere dal contratto e chiedere un vasto risarcimento danni, che farà il Vostro nuovo avvocato prescelto.

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Ultimo aggiornamento Venerdì, Giugno 02 2023
  
28
Maggio
2023

Riforma Cartabia: le nuove sanzioni previste per la mancata partecipazione;

La Riforma Cartabia prevede sanzioni più severe in caso di mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione. Di seguito conseguenze per chi non partecipa alla mediazione;

La Riforma Cartabia (d.lgs. 149/2022) ha introdotto molte novità nella disciplina della mediazione ed una di queste riguarda la previsione di sanzioni più severe nei confronti della parte che, senza giustificato motivo, non partecipi al primo incontro di mediazione. Le nuove norme riguardo a questo tema sono entrate in vigore il 28 febbraio 2023 e sono racchiuse nel nuovo art. 12-bis del d.lgs. 28/2010. La possibilità per il giudice di desumere argomenti di prova sfavorevoli; Il primo comma della citata disposizione prevede, sulla falsariga della precedente disciplina, che dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al primo incontro di mediazione il giudice possa desumere argomenti di prova nel successivo giudizio, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma secondo. Per comprendere al meglio la portata di tale norma, è necessario ricordare che il procedimento di mediazione è uno strumento di risoluzione alternativa delle controversie, che si pone, nell’architettura del nostro ordinamento, come alternativa al giudizio civile. Tale sanzione, quindi, mette in risalto il valore praticamente equivalente della mediazione rispetto al giudizio civile, evidenziando che la scelta di non partecipare alla mediazione non può rimanere senza conseguenze nel merito del successivo giudizio davanti al giudice. Quest’ultimo, infatti, nel prendere una decisione sulla controversia, ha facoltà di considerare la mancata partecipazione alla mediazione come un elemento di prova, cioè un indizio, sfavorevole alla parte che ha tenuto tale condotta.

Riforma Cartabia e mediazione: raddoppiata la sanzione per chi non partecipa

Altra conseguenza sfavorevole derivante dalla mancata partecipazione al primo incontro di mediazione senza giustificato motivo è la condanna al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al doppio del contributo unificato per il giudizio. Si tratta di un inasprimento della sanzione rispetto alla precedente disciplina, che prevedeva il pagamento di un importo corrispondente al contributo unificato: la pena è quindi raddoppiata. Questa sanzione si applica soltanto nelle ipotesi di mediazione obbligatoria, cioè in quei casi in cui l’esperimento della mediazione è considerato come condizione di procedibilità per il giudizio: si tratta, in sostanza, dei casi tassativamente previsti dal d.lgs. 28/2010 e cioè dei giudizi in materia di: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, associazione in partecipazione, consorzio, franchising, opera, rete, Società di Persone, e Subfornitura. Il legislatore ha ritenuto di rendere obbligatoria la mediazione in tali materie in un’ottica deflattiva del carico di lavoro dei Tribunali. È evidente che la mancata partecipazione al primo incontro senza giustificato motivo mortifica il tentativo di raggiungere tale obiettivo, ed è in ciò che trova ragione la previsione della sanzione appena descritta. È appena il caso di ricordare che il procedimento di mediazione è attivabile presso uno qualsiasi degli Organismi di mediazione autorizzati dal Ministero della Giustizia, come OMCI.

Mancata partecipazione alla mediazione: le sanzioni della riforma Cartabia

La Riforma Cartabia ha inoltre introdotto un’ulteriore sanzione a carico di chi non partecipa senza giustificato motivo alla mediazione obbligatoria.Infatti, con il provvedimento che definisce il giudizio, il giudice, se richiesto dall’avvocato della parte vittoriosa, può condannare la parte soccombente, che non abbia partecipato alla mediazione, al pagamento in favore della controparte di una somma equitativamente determinata, in una misura che non ecceda nel massimo le spese del giudizio maturate dopo la conclusione del procedimento di mediazione. Infine, il quarto comma del nuovo art. 12-bis del d.lgs. 28/2010 prevede una particolare sanzione a carico delle amministrazioni pubbliche che non abbiano preso parte, senza giustificato motivo, al primo incontro di mediazione. In tal caso, infatti, una copia del provvedimento con cui l’ente viene condannato al pagamento del doppio del contributo unificato viene trasmessa dal giudice al pubblico ministero presso la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti. Se, inoltre, il destinatario del provvedimento è un ente sottoposto alla vigilanza da parte di un’Autorità di vigilanza del settore, una copia del suddetto provvedimento verrà inviata anche a quest’ultima.

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Ultimo aggiornamento Domenica, Maggio 28 2023
  
26
Maggio
2023

Estratti conto: la banca ha l'obbligo di consegnarli dall'inizio del rapporto;

SINTESI: Il tribunale di Napoli ha stabilito con sentenza del 26 Aprile 2023, che il limite decennale previsto dall'art. 119 IV comma TUB non può trovare applicazione per gli estratti conto e i riassunti scalari ma solo per la documentazione relativa a singole operazioni.

Diritto alla consegna dei documenti bancari

L'art. 119 TUB stabilisce che il cliente ha diritto a ricevere dalla banca alla scadenza del contratto e comunque almeno una volta all'anno una comunicazione chiara in merito allo svolgimento del rapporto, in forma scritta o mediante altro supporto durevole preventivamente accettato. Per i rapporti regolati in conto corrente tali comunicazioni si identificano con gli estratti conto e i riassunti scalari che la Banca invia con periodicità annuale o, a scelta del cliente, con periodicità semestrale, trimestrale o mensile. Il IV comma della disposizione in esame stabilisce che il cliente, colui che gli succede a qualunque titolo e colui che subentra nell'amministrazione dei suoi beni hanno diritto di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni. Al cliente possono essere addebitati solo i costi di produzione di tale documentazione. Sulla banca incombe, altresì, l'obbligo di consegnare al cliente il contratto in base all'art. 117 TUB. Tale norma, dopo aver previsto a pena di nullità che i contratti siano redatti per iscritto, ne impone la consegna di un esemplare ai clienti, i quali hanno diritto a riceverne copia, sia al momento della sottoscrizione, che successivamente, laddove, come può accadere, abbiano smarrito il documento o non lo abbiano ricevuto e ne facciano richiesta di consegna. Come confermato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, l'obbligo di consegna dei contratti scaturisce anche dall'obbligo di buona fede, correttezza e solidarietà, che è accessorio di ogni prestazione dedotta in negozio e comporta esso stesso una prestazione cui ognuna delle parti è tenuta, in quanto imposta direttamente dalla legge (art. 1374 c.c.).

Ambito di applicazione del limite decennale

Nella sentenza in esame del 26 aprile 2023, il Tribunale di Napoli non ha condiviso l'orientamento espresso dalla Corte di cassazione (si veda Cass. 29.11.2022, n. 35039) e ha precisato che la Banca è obbligata a consegnare al cliente che ne fa richiesta, tutti gli estratti conto e i riassunti scalari dall'inizio del rapporto e non solo quelli relativi all'ultimo decennio. Secondo il Tribunale di Napoli, il limite decennale stabilito dall'art. 119 TUB non riguarda gli estratti conto e i riassunti scalari bensì solo la documentazione relativa a singole operazioni (cioè le copie dei bonifici, degli assegni e dei prelievi allo sportello o dei versamenti). Infatti, l'obbligo di rendicontazione periodica che è una specificazione dell'obbligo di trasparenza, è adempiuto attraverso la consegna degli estratti conto e dei riassunti scalari, ove è riportato il riepilogo delle voci che consentono di controllare l'andamento del rapporto. Ritenere che la banca sia tenuta a conservare e, quindi, a consegnare gli estratti conto e i riassunti scalari solo per gli ultimi dieci anni, significherebbe privare il cliente del diritto all'informazione e alla trasparenza.

Diritto agli estratti conto e sanzione alla banca per ogni giorno di ritardo

Pertanto, il correntista ha il diritto di chiedere e ottenere dalla Banca gli estratti conto e i riassunti scalari senza limiti di tempo, relativi all'intera durata del rapporto e può esercitare tale diritto inviando apposita istanza ai sensi dell'art. 119 IV comma TUB e, in mancanza di riscontro, proponendo ricorso per decreto ingiuntivo. La sentenza in esame, inoltre, applica la misura coercitiva indiretta prevista dall'art. 614 bis c.p.c. e, come richiesto dalla parte che ha ottenuto un'ordinanza ex art. 186 quater c.p.c., condanna la Banca che non l'ha eseguita, al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo.

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Ultimo aggiornamento Venerdì, Maggio 26 2023
  
24
Maggio
2023

Sospeso l’avvocato con la sede dell’organismo di mediazione nei locali del suo studio legale;

sede organismo mediazione e studio legale

“Costituisce illecito disciplinare il comportamento dell’avvocato che instauri procedure conciliative ex D.Lgs. n. 28/2010 dinanzi all’Organismo di mediazione di cui egli stesso faccia parte, tanto più nel caso in cui la sede dell’Organismo stesso coincida o sia contigua con quella del proprio studio professionale in violazione dell’art. 62 cdf, che è sufficiente a far dubitare dell’imparzialità ed indipendenza dell’avvocato-mediatore ed integra una indubbia situazione di potenziale accaparramento e/o sviamento di clientela”. Questo il principio sancito dal Consiglio Nazionale Forense, nella sentenza n. 265/2022, pubblicata sul sito del Codice deontologico il 18 maggio 2023.

La vicenda

Nella vicenda, l’avvocato aveva instaurato una procedura di mediazione innanzi all’organismo dallo stesso presieduto ed avente sede presso il medesimo indirizzo del proprio studio legale. La questione finiva innanzi al Consiglio distrettuale di disciplina il quale ritenuta provata la violazione dell’art. 55 bis del precedente codice deontologico (art. 62 codice attuale) irrogava all’avvocato incolpato la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per due mesi. Il legale, a sua “discolpa”, respingeva ogni accusa e precisava che la sede dell’Organismo e quella dello studio legale si trovavano sì nel medesimo appartamento ma non nel medesimo studio, avendo i due uffici ingressi e locali diversi e condividendo meramente il portoncino d’ingresso. Per il CDD, tuttavia, tale separazione di ambienti all’interno del medesimo appartamento non valeva ad escludere l’integrazione della fattispecie sanzionata dal codice deontologico.

Il ricorso

L’avvocato adiva, quindi, il CNF insistendo sull’insussistenza dell’addebito contestato in quanto, a suo dire, “il condividere un locale d’ingresso di accesso a tre autonomi, separati minialloggi non costituiva fattore in grado di ipotizzare commistione di interessi o una situazione di ambiguità”; aggiungeva che “tali immobili erano dotati di autonomi servizi igienici, distinti apparati citofonici, distinte forniture di energia elettrica ed idrica, distinte cassette per la corrispondenza, diverso arredamento e diverse attrezzature ed apparecchiature e che il personale di segreteria era diverso e diversi i recapiti telefonici e di posta informatica”. Non solo. Tra le altre cose, lamentava una eccessività nella sanzione in considerazione della circostanza che i fatti contestati si riferivano al 2012, quindi sotto il dettato della vecchia legge, quando l’art. 55-bis era stato appena introdotto; per cui sarebbe risultata più appropriata la sanzione dell’avvertimento.

Imparzialità avvocato-mediatore: la decisione

Risultando pacifici i fatti e alquanto approfondito e motivato l’esame da parte del CDD, il CNF afferma preliminarmente che “il disvalore ascritto alla coincidenza ovvero contiguità tra sede dell’organismo di mediazione e sede dello studio legale deriva dalla necessità di evitare anche la mera apparenza di una commistione di interessi, di per sé sufficiente a far dubitare dell’imparzialità dell’avvocato-mediatore”. E sebbene la circostanza sia emersa, relativamente a un procedimento mediatorio, sottolinea il Consiglio come “il valore protetto dalla norma abbia rilievo generale e indipendente rispetto allo svolgimento di singoli procedimenti e debba dunque essere tutelato a prescindere dalla circostanza che la commistione di interessi emerga in relazione a un procedimento individuato”. In sostanza, prosegue il CNF, “anche soltanto la contiguità può costituire un fattore, agli occhi dei terzi, di una ipotetica commistione di interessi sufficiente a far dubitare dell’imparzialità ed indipendenza dell’avvocato-mediatore”. E il divieto di coincidenza/contiguità “non opera soltanto nei confronti dei soggetti in mediazione, ma anche e soprattutto a tutela dell’immagine dell’Avvocatura e dell’istituto della mediazione ed è posto proprio affinché i cittadini possano ad essa affidarsi in totale fiducia e trasparenza. La sovrapposizione tra studio legale e organismo di mediazione, come sostiene il CDD, finirebbe in effetti “per integrare una indubbia situazione di potenziale accaparramento e/o sviamento di clientela: l’avvocato ospitante od ospitato si troverebbe a godere di una rendita di posizione volta ad acquisire come potenziali clienti coloro che volessero sperimentare la mediazione o coloro che avessero frequentato l’organismo con esito negativo sul piano della conciliazione”. Per cui, la asserita separazione interna dei locali non vale, in conclusione, ad escludere l’illecito disciplinare, trattandosi di “tutelare una condizione astratta di indipendenza ed imparzialità – e – di garantire, anche visivamente una divisione tra l’attività di difesa e quella di mediazione”. Niente da fare neanche per quanto riguarda la lamentata eccessività della sanzione che il CNF, rigettando infine il ricorso, ritiene congrua al caso di specie.

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Ultimo aggiornamento Mercoledì, Maggio 24 2023
  
23
Maggio
2023

Usucapione innanzi al notaio non può essere trascritta: serve il mediatore;

Importante pronuncia del tribunale di Milano secondo cui l’usucapione fatto dinanzi al notaio anziché in mediazione non può essere trascritto;

Usucapione e mediazione

Non può essere trascritto il negozio di accertamento dell’usucapione fatto dinanzi al notaio anziché in mediazione senza l’intervento del mediatore. Questo quanto affermato dal tribunale di Milano, in un’importante ordinanza del 20.12.2022. Nella vicenda, le parti interessate e il notaio proponevano reclamo avverso il provvedimento di diniego del Conservatore dei Registri Immobiliari di trascrizione dell’atto portante “negozio di accertamento di avvenuto acquisto per usucapione ordinaria”, in quanto l’accertamento dell’usucapione doveva essere fatto con mediazione oppure con sentenza, assumendone l’illegittimità. Secondo i ricorrenti il legislatore aveva previsto la trascrivibilità del negozio di accertamento introducendo l’art. 2643 I comma c.c. n.12 bis recante “gli accordi di mediazione che accertano l’usucapione”, cosicché l’accordo conciliativo avrebbe avuto ad oggetto l’accertamento tra le parti dei presupposti su cui si fonda l’usucapione con effetti preclusivi rispetto ai fatti accertati, tra le stesse parti e i loro aventi causa.

Inoltre l’atto negoziale di accertamento avrebbe potuto essere trascritto anche al di fuori di procedura conciliativa, come ritenuto dalla giurisprudenza di merito.

A sostegno della trascrivibilità del negozio di accertamento, doveva tenersi conto altresì, a dire dei ricorrenti, della disciplina in materia di negoziazione assistita di cui all’art. 5 DL 132/14 comma 3 secondo cui se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti soggetti a trascrizione per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

La decisione

Il Collegio ritiene che il reclamo non sia fondato e vada respinto. “La disciplina di cui all’art. 2643 c.c. n.12 bis secondo cui sono soggetti a trascrizione gli accordi di mediazione che accertano l’usucapione con la sottoscrizione del processo verbale autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato – afferma preliminarmente il tribunale meneghino – costituisce eccezione al principio di cui all’art. 2651 c.c. secondo cui gli acquisti per usucapione possono essere trascritti solo se accertati giudizialmente”. Per cui, non è possibile “applicare estensivamente detta disciplina al di fuori della ipotesi per cui è stata introdotta e cioè gli accordi di mediazione trascritti giudizialmente, accordi il cui obiettivo è la deflazione del contenzioso”.  Come già osservato dai giudici di Milano, con riferimento a detta norma “l’atto ivi previsto quale soggetto a trascrizione non è parificabile ad un mero negozio di accertamento che intervenga tra le parti, trattandosi invece, di un atto che si perfeziona all’esito del processo di mediazione che, in materia di diritti reali, deve obbligatoriamente precedere ex art. D.Lgs 28/10 e successive modificazioni, la proposizione della domanda innanzi alla autorità giudiziaria”, inoltre “l’accordo del quale è prevista la trascrizione è dunque l’effetto non solo del mero incontro della volontà delle parti interessate, ma del procedimento svolto innanzi agli organismi di mediazione indicati dalla legge nel corso del quale le parti sono anche assistite dai propri consulenti legali”. Né, prosegue il tribunale, “è possibile trascrivere il negozio di accertamento dell’avvenuta usucapione, come chiedono i ricorrenti, posto che ai sensi dell’art. 2645 c.c. sono soggetti a trascrizione ‘ogni altro atto o provvedimento che produce in relazione a beni immobili o a diritti immobiliari taluno degli effetti dei contratti menzionati nell’art. 2643, salvo che dalla legge risulti che la trascrizione non è richiesta o è richiesta a effetti diversi’.

Il negozio di accertamento dell’acquisto della proprietà per usucapione, invero, “non produce alcuno degli effetti di cui all’art. 2643 c.c.” A nulla rileva, infine, osserva il tribunale, l’eventualità di un “accordo che accerti l’usucapione a favore di uno dei due coniugi nell’ambito della disciplina della negoziazione assistita, trattandosi di ipotesi che secondo la ricostruzione dei reclamanti è conseguenza dell’applicabilità dell’art. 2643 c.c. n.12 bis.”.

Il reclamo è quindi respinto.

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Ultimo aggiornamento Martedì, Maggio 23 2023
  
19
Maggio
2023

Nuovo codice degli appalti pubblici: esclusione automatica per le offerte anomale;

SINTESI:  l nuovo codice degli appalti pubblici individua i casi di applicabilità dell’esclusione automatica delle offerte anomale nell’aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso dei contratti “sottosoglia”. In tali casi, le stazioni appaltanti indicano negli atti di gara il metodo per l’individuazione delle offerte anomale, scelto fra quelli descritti nell’ allegato II.2 (D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36).L’ articolo 54, del D.Lgs. n. 36/2023, cd. nuovo codice degli appalti pubblici, illustra le novità in materia di esclusione automatica delle offerte anomale. In particolare, il comma 1 consente l’esclusione automatica delle offerte anomale (in deroga alla disciplina di valutazione delle offerte recate dall’art. 110), nell’aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso dei contratti “sottosoglia”, qualora ricorrano tutte le seguenti condizioni:

- l’esclusione è stata prevista negli atti di gara;

- i contratti riguardano l’appalto di lavori o servizi ma non di forniture;

- i contratti non presentano un interesse transfrontaliero certo;

- vi sono almeno cinque offerte ammesse.

Si tratta di una disposizione che riproduce, seppur con alcune rilevanti differenze, quella recata dall’ art. 97, comma 8, del precedente Codice degli appalti ( D.Lgs. n. 50/2016). La citata disposizione, infatti, a differenza di quanto previsto dalla nuova norma, si applica anche agli appalti di forniture e prevede che l'esclusione automatica non opera quando il numero delle offerte ammesse è inferiore a dieci. La relazione illustrativa ricorda che “la direttiva europea 2014/24/EU fornisce indicazioni chiare sulla gestione del rischio di anomalia delle offerte imponendo alle stazioni appaltanti di valutare questo rischio e fornendo agli operatori economici la possibilità di presentare i loro giustificativi. La direttiva, sulla base di pronunciamenti della Corte di Giustizia dell’Unione europea, vieta l’applicazione di qualsiasi forma di automatismo per l’automatica esclusione delle offerte che sulla base, ad esempio, di un algoritmo matematico, siano classificate come anomale.

Verifica facoltativa della congruità delle offerte

Si prevede che, in ogni caso, le stazioni appaltanti possono valutare la congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa.

Riguardo a tale periodo, la relazione illustrativa che ha accompagnato l’approvazione del nuovo Codice degli appalti pubblici sottolinea che in esso “si recupera la norma contenuta nell’ art. 97, comma 6, del D.Lgs. n. 50/2016 in tema di ‘verifica facoltativa’ della congruità dell’offerta. Si ricorda, a questo proposito, che la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto che le stazioni appaltanti dispongono di una discrezionalità ampia con riguardo alla scelta di procedere, o no, alla verifica facoltativa, con la conseguenza che il ricorso all’istituto (come pure la mancata applicazione di esso) non necessita di una particolare motivazione né può essere sindacato se non nelle ipotesi, remote, di macroscopica irragionevolezza o di decisivo errore di fatto ( Cons. Stato, Sez. V, 29/1/2018, n. 604)”.

Metodo per individuare le offerte anomale

Il comma 2, dell’ articolo 54 del nuovo Codice degli appalti pubblici dispone che le stazioni appaltanti indicano negli atti di gara il metodo per l’individuazione delle offerte anomale, scelto fra quelli descritti nell’allegato II.2. La relazione illustrativa evidenzia che tale disposizione rappresenta “la parte più innovativa” dell’articolo in esame, finalizzata precipuamente a “ridurre in misura significativa i (…) rischi di manipolazione della soglia di anomalia”.

Sostituzione dell’allegato II.2

Il comma 3 dell’ art. 54 del nuovo Codice dei contratti pubblici prevede che l’ allegato II.2 è abrogato a decorrere dalla data di entrata in vigore di un corrispondente regolamento ministeriale adottato (ai sensi dell’ art. 17, comma 3, L. n. 400/1988) con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, previo parere dell’ANAC, che lo ostituisce integralmente anche in qualità di allegato al Codice.

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Ultimo aggiornamento Venerdì, Maggio 19 2023
  
17
Maggio
2023

Mediazione obbligatoria: soccombente paga anche le spese del tentativo;

La parte che vince in sede di giudizio ha diritto a essere rimborsata in relazione alle spese sostenute nella procedura di mediazione;

Spese di mediazione a carico della parte soccombente in giudizio

SINTESI: La parte che soccombe nel giudizio di merito può essere condannata a rimborsare alla parte che invece ha vinto la causa anche le spese che la stessa ha sostenuto per esperire la procedura di mediazione.   Le spese che il vincitore sostiene per la procedura di mediazione possono essere considerate infatti esborsi, in base a quanto previsto dall’art. 91 del codice di procedura civile. Lo ha chiarito, dando seguito alla giurisprudenza prevalente in materia, il Tribunale di Catanzaro nella sentenza n. 464 del 22.03.2023.

Esito negativo della mediazione in materia risarcitoria

Un privato conviene in giudizio una S.p.a. per chiedere la condanna al pagamento dei danni subiti a causa di un incendio che ha colpito l’immobile di sua proprietà. La S.p.a nel caso di specie è una compagnia si assicurazione con la quale il privato ha stipulato una polizza assicurativa sull’immobile e alla quale chiede quindi l’indennizzo, sulla base della stessa. Richiesta alla quale si sente rispondere negativamente, in quanto la compagnia rileva che, dalla documentazione contrattuale, non vi è coincidenza tra la via in cui l’immobile si trova e quella indicata nel contratto per un errore nella compilazione dei documenti contrattuali.  Contestazione a cui il privato risponde inviando le visure catastali da cui emerge il contrario, ossia che l’immobile danneggiato risulta correttamente assicurato. Avviata la procedura di mediazione la stessa si conclude negativamente. Il procedimento giudiziario quindi prosegue per concludersi con l’accoglimento della domanda risarcitoria e la condanna della compagnia al pagamento dei danni che vengono quantificati in € 73.107,55 e anche con la condanna al pagamento delle spese di mediazione documentate e sostenute dall’attore pari ad € 108,90.

Condanna al pagamento delle spese di mediazione

La condanna alle spese della procedura di mediazione sostenute dall’attore viene disposta in accoglimento della domanda attorea. Per opinione della prevalente giurisprudenza di merito, infatti, la liquidazione delle spese e dei costi del procedimento di mediazione deve avvenire, concluso il processo di merito, nel rispetto delle regole sancite dall’art. 91 e seguenti del codice di procedura civile. Nel prendere questa decisione il Tribunale richiama due sentenze di merito:

  • La prima, quella del Tribunale di Trieste datata 11.03.2021 ritiene che il collegamento tra processo civile e mediazione non sia solo di tipo cronologico e che l’attività del mediatore e del giudice debbano coordinarsi. Ne consegue che la parte soccombente in giudizio possa essere condannata anche a pagare le spese sostenute dal vincitore per la procedura di mediazione. La condotta del soccombente infatti non può non avere effetti anche sul giudizio successivo;
  • La seconda sentenza di merito emessa dal Tribunale di Verona il 15.101.2015 ha precisato invece ulteriormente che tra le spese da porre a carico della parte soccombente del giudizio di merito ci sono anche quelle sostenute per l’assistenza dell’avvocato in sede di mediazione obbligatoria, che si è svolta in pendenza del processo.

Cosa prevede l’art. 91 c.p.c.

La norma che viene richiamata nella sentenza e che viene posta dal Tribunale di Catanzaro a base della decisione è l’art. 91 del codice di procedura civile. La norma, dedicata alla condanna alle spese del giudizio, sancisce in sostanza che il giudice, quando emette la sentenza che chiude il giudizio, condanna la parte soccombente a rimborsare le spese alla controparte, liquidandone l’importo contestualmente agli onorari di difesa. In questo modo la norma afferma il principio per il quale il ricorso all’autorità giudiziaria non deve avere conseguenze negative per chi, proprio in sede di giudizio, ha ragione e risulta vincitore della controversia.

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Ultimo aggiornamento Mercoledì, Maggio 17 2023
  

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