+ - =
+/-
OMCI - Organismo di Mediazione

Omci - Organismo di Mediazione e Conciliazione Italia

04
Luglio
2023

Danni da inadempimento contrattuale: risarcite anche le spese della mediazione;

Per il tribunale di Ravenna merita accoglimento la richiesta di risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale, ivi comprese le spese per il procedimento di mediazione obbligatoria;

Sì al risarcimento del danno per le spese inutilmente sostenute per la mediazione. Questo quanto si ricava, in sintesi, dalla sentenza n. 362/2023 del 29/05/2023,  resa dal tribunale di Ravenna in una causa avviata da un avvocato nei confronti di una società, al fine di far dichiarare l’invalidità per vizio del consenso ai sensi dell’ art. 1439 c.c., o in subordine la risoluzione per inadempimento della convenuta, del contratto stipulato per lo svolgimento di una serie di attività finalizzate al recupero di somme indebitamente corrisposte nell’ambito di alcuni rapporti contrattuali avviati dall’attore e dalla moglie con un istituto di credito.

Risoluzione contratto per inadempimento

Alla luce delle risultanze processuali, il giudice ritiene evidente la responsabilità per gravi inadempimenti da parte della Srl tale da giustificare senz’altro l’accoglimento della domanda attorea di risoluzione del contratto di mandato stipulato tra le parti in causa.

Per il giudice, quindi, l’attore ha conseguentemente diritto alla restituzione della somma complessivamente versata alla convenuta in esecuzione del predetto contratto, maggiorata degli interessi legali.

Risarcimento danni per il “tempo perduto”

Non solo. Per il tribunale, merita accoglimento anche la domanda attorea di risarcimento dei lamentati danni da inadempimento contrattuale, che vanno individuati “nella spesa inutilmente sostenuta per il procedimento di mediazione obbligatoria promosso nei confronti della banca – con l’assistenza di un legale – nonché nei riflessi patrimoniali negativi di tutto il tempo perduto dall’attore e di tutta l’attività inutilmente svolta dal medesimo (ricerca di documentazione, telefonate, corrispondenza, viaggi, accessi presso studi professionali, partecipazione al suddetto procedimento di mediazione, ecc.) per mettere la società e i professionisti designati dalla stessa nelle condizioni di poter espletare gli incarichi loro conferiti”.

Riflessi negativi che per il giudice “possono liquidarsi in via equitativa nella misura di 3.000, 00, oltre a rivalutazione e interessi”.

E-mail Stampa PDF
Ultimo aggiornamento Martedì, Luglio 04 2023
  
30
Giugno
2023

Beni da pignorare: firmata la convenzione tra via Arenula e Entrate;

Siglata la convenzione tra ministero della Giustizia e Agenzia delle Entrate per rendere più agevole la ricerca telematica dei beni da pignorare;

È stata siglata dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e dal direttore dell'Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini, la convenzione che consentirà agli ufficiali giudiziari di accedere alle banche dati dell'Amministrazione finanziaria.

Il fine, comunicano le note congiunte di via Arenula e delle Entrate, è quello di "rendere più agevole la ricerca telematica dei beni da pignorare", prevista dall'art. 492-bis c.p.c. come novellato dalla riforma Cartabia, "in seguito alla richiesta di un creditore, o da sottoporre a procedura concorsuale, su richiesta del curatore".

Accordo valido 5 anni

L'accordo, che ha ottenuto anche l'ok del Garante Privacy, avrà una validità di cinque anni e regolerà l'accesso alle informazioni contenute nelle banche dati del fisco, "in conformità ai principi stabiliti dal Regolamento generale sulla protezione dei dati e dal Codice in materia di protezione dei dati personali".

Nello specifico, gli ufficiali giudiziari potranno usare il servizio, nell'ambito dei propri compiti di ufficio, al fine di acquisire tutte le informazioni utili a individuare i beni da sottoporre a esecuzione, anche nell'ambito di procedure concorsuali.

Come funziona l'accesso

L'accesso, spiegano il Ministero e l'Agenzia, la cui sicurezza dal punto di vista tecnico è garantita da un servizio di cooperazione informatica che utilizza il Sistema di interscambio dati (Sid), sarà richiesto dall'ufficiale giudiziario relativamente ai soggetti per i quali "è stata presentata istanza da parte di un creditore in possesso di un titolo esecutivo e del precetto o a seguito di specifica autorizzazione del presidente del Tribunale o di un giudice da lui delegato".

A quel punto, le Entrate verificheranno la regolarità della richiesta e invieranno la risposta con le informazioni al sistema informatico del Ministero.

Gli accessi al servizio saranno tracciati da entrambe le parti.

E-mail Stampa PDF
Ultimo aggiornamento Venerdì, Giugno 30 2023
  
26
Giugno
2023

Avvocato radiato: la valutazione della condotta irreprensibile;

Per il CNF, la valutazione della condotta irreprensibile ai fini della reiscrizione all'albo dell'avvocato non può limitarsi ai comportamenti precedenti la condanna disciplinare;

Reiscrizione all'albo a seguito di radiazione

"La valutazione della condotta irreprensibile (art. 17 L. n. 247/2012), che la legge richiede per la re-iscrizione nell'albo a seguito di cancellazione disciplinare o radiazione non può limitarsi all'esame dei comportamenti dell'avvocato precedenti alla condanna disciplinare, poiché altrimenti di nessun professionista già ritenuto meritevole di radiazione disciplinare potrebbe mai essere disposta la reiscrizione". Così il Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 12/2023.

Il CNF è stato chiamato ad esprimersi sul ricorso di un professionista che, radiato dall'albo a seguito di procedimento disciplinare, ne chiedeva la reiscrizione allegando ordinanza di riabilitazione.

Il COA rigettava la domanda e l'avvocato adiva il CNF perché, ritenendo sussistenti i requisiti per la propria iscrizione all'albo, lamentava difetto di motivazione della decisione del COA, il quale non avrebbe tenuto conto di tutti gli elementi a supporto della propria istanza; in particolare a) del lasso di tempo trascorso dai fatti delittuosi; b) della riabilitazione intervenuta che ha dato conto anche del risarcimento effettuato alla vittime e del pagamento delle spese di giustizia; c) del comportamento irreprensibile tenuto dal ricorrente negli ultimi 13 anni.

Per il CNF tuttavia il ricorrente ha torto.

La valutazione dei requisiti necessari per la (re)iscrizione all'albo, resta un'attività di competenza dei Consigli territoriali, che sono chiamati a verificare la loro sussistenza afferma preliminarmente e, nel caso di specie, il COA ha approfonditamente scrutinate e valutate le deduzioni del ricorrente, ritenendo che la prova dei requisiti non fosse stata raggiunta, nonostante gli aspetti evidenziati dal richiedente.

Per cui, confermando il corretto operato del consiglio dell'Ordine e respingendo il ricorso, il CNF ricorda la propria giurisprudenza, secondo la quale "la riabilitazione, pur estinguendo le pene 7 accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, non impedisce l'operatività delle ulteriori conseguenze prodottesi autonomamente sul piano amministrativo, quali la valutazione dei requisiti soggettivi occorrenti per l'iscrizione o quelle di tipo disciplinare, né vale ad escludere la storicità dei fatti e la loro negativa valenza in ordine alla considerazione dell'affidabilità del soggetto in relazione alla previsione della sua inclinazione ad un corretto svolgimento della professione forense" (CNF 94/2020).

E ancora: "La valutazione della condotta irreprensibile (già specchiatissima ed illibata), che la legge richiede per la re-iscrizione nell'albo a seguito di cancellazione disciplinare o radiazione non può limitarsi all'esame dei comportamenti dell'avvocato precedenti alla condanna disciplinare, poiché altrimenti di nessun professionista già ritenuto meritevole di radiazione o di cancellazione disciplinare potrebbe mai essere disposta la reiscrizione" (CNF n. 17/2017).

E-mail Stampa PDF
Ultimo aggiornamento Lunedì, Giugno 26 2023
  
16
Giugno
2023

Okay a identità della domanda di mediazione e della citazione;

Se l’oggetto e le ragioni esposte nella domanda di mediazione e nell’atto di citazione coincidono la condizione di procedibilità è rispettata;

SINTESI: Condizione rispettata se citazione e domanda di mediazione coincidono

 

La condizione di procedibilità della mediazione nelle materie indicate dall’art. 5 del decreto legislativo n. 28/2010, tra le quali compaiono i diritti reali, è rispettata se l’oggetto e le ragioni della domanda avanzata in mediazione sono le stesse di quelle indicate nell’atto di citazione.

Nella vicenda portata all’attenzione del Tribunale di Sondrio e risolta con la sentenza n. 124/2023 del 18/05/2023, parte attrice nella domanda presentata per avviare la mediazione ha fatto riferimento alla materia “diritti reali e servitù di passaggio”.

Nell’atto di citazione ha presentato una domanda di accertamento e di costituzione di una servitù di passaggio sul fondo vicino. Dalle ragioni poste infine a base della pretesa emerge che l’oggetto dell’azione giudiziale futura è una servitù di passaggio.

 

Servitù di passaggio e mediazione

 

Alcuni vicini di casa avviano una causa per una servitù di passaggio carraio, che consentirebbe loro di transitare più comodamente sul fondo servente.

Gli attori del giudizio chiedono la costituzione di un diritto di servitù di passaggio sul fondo di proprietà delle convenute. In cambio però accettano di riconoscere alle stesse un’indennità per il disagio che questa servitù causerebbe, come previsto dall’art. 1053 del codice civile.

Le convenute, quando si costituiscono in giudizio, si oppongono alle richieste avanzate e fanno presente che la domanda della controparte non è procedibile. Gli attori non avrebbero provveduto ad avviare la procedura di mediazione, come richiesto invece dall’art. 5 del decreto legislativo n. 28/2010.

 

Oggetto e ragioni della citazione e della domanda di mediazione coincidono

 

Alla prima udienza il Giudice rileva però l’avvenuto esperimento della procedura di mediazione, risultante dagli scritti depositati.

Nel respingere l’eccezione preliminare sollevata dalle convenute, che hanno lamentato la mancata attivazione della procedura di mediazione, il Giudice richiama il contenuto dell’ordinanza di rigetto nella parte in cui ha evidenziato che:

l’oggetto e le richieste degli attori ossia l’accertamento o la costituzione del diritto della servitù di passaggio in loro favore sono indicati sia nell’atto di citazione che nel modulo di mediazione in cui fanno riferimento a diritti reali e servitù di passaggio; dalle ragioni che gli attori pongono alla base della loro richiesta si comprende chiaramente che l’oggetto dell’azione giudiziale riguarda una servitù di passaggio; la richiesta di togliere le piante che ostacolano il passaggio fa capire che questa richiesta presuppone l’accoglimento della dichiarazione o costituzione della servitù di passaggio, così come richiesta dagli attori.

E-mail Stampa PDF
Ultimo aggiornamento Domenica, Giugno 18 2023
  
15
Giugno
2023

Scatta la segnalazione all’Ivass per le compagnie assicurative che non partecipano alla mediazione;

Le compagnie di assicurazione che non partecipano agli incontri di mediazione obbligatoria devono essere segnalate all’Ivass, l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni.

La Riforma Cartabia ha introdotto questa regola nel nuovo articolo 12 bis del decreto legislativo n. 28/2010, che contiene la disciplina della mediazione civile e commerciale.

Il soggetto investito del potere si effettuare questa segnalazione all’Ivass, che è l’autorità di vigilanza delle compagnie assicurative, è il giudice.

L’autorità giudiziaria che in giudizio rilevi la mancata partecipazione della compagnia di assicurazione al primo incontro di mediazione senza un giustificato motivo agisce in due modi.

Prima di tutto condanna la compagnia assicuratrice a pagare allo Stato una somma pari a quella del contributo unificato previsto per il giudizio.

In seguito, il giudice trasmette la copia del provvedimento che contiene questa condanna all’Autorità di vigilanza competente, che nel caso delle Assicurazioni, è l’Ivass.

Mancata partecipazione alla mediazione: conseguenze processuali

L’assicurazione che non partecipa all’incontro di mediazione, quando questa rappresenta condizione di procedibilità della domanda in giudizio, subisce altre conseguenze sul piano processuale.

Prima di tutto il giudice, dalla mancata partecipazione dell’assicuratore al primo incontro di mediazione, può trarre argomenti di prova.

Questo significa che la condotta poco collaborativa dell’assicuratore avrà un suo peso sulla decisione che il giudice prenderà alla fine della causa.

In secondo luogo, se la parte ne fa richiesta, il giudice può condannare la compagnia assicurativa soccombente a pagare alla controparte una somma determinata in via equitativa.

Importo che tuttavia non potrà superare quello delle spese del giudizio e che sono maturate dopo che si è conclusa la mediazione.

Mancata partecipazione: il giustificato motivo

La compagnia assicurativa che non prende parte alla mediazione senza un giustificato motivo va incontro quindi a diverse conseguenze negative. Occorrono valide ragioni per non presenziare all’incontro.

La mancata partecipazione al primo incontro di mediazione non può infatti identificarsi con l’affermazione di avere ragione rispetto alla controparte.

La Compagnia di assicurazione che rifiuta il dialogo con la parte avversa, al punto da non volerla incontrare in sede stragiudiziale, dimostra di non comprendere la finalità dell’istituto.

Il mediatore che dirige la procedura di mediazione ha infatti il compito di trovare un canale di comunicazione tra le parti.

Una volta ripristinato il dialogo sarà compito dei litiganti impegnarsi, mettersi nei panni della controparte, rivedere ciascuno le proprie posizioni iniziali e cercare un accordo amichevole e soddisfacente per entrambi.

E-mail Stampa PDF
Ultimo aggiornamento Giovedì, Giugno 15 2023
  
14
Giugno
2023

Il Cumulo tra Mediazione Civile e Negoziazione Assistita;

La prevalenza della Mediazione civile rispetto alla Negoziazione: riflessioni alla luce della giurisprudenza costituzionale e di merito.

Com’è noto, anche nel processo civile, il legislatore ha introdotto i procedimenti deflattivi, prefiggendosi lo scopo di “snellire” il carico processuale presso le sedi giudiziarie.
La necessità d’una degiurisdizionalizzazione ha fatto sì che il legislatore volgesse il suo sguardo “all’Alternative Dispute Resolution” (A.D.R.), ossia all’istituto per la risoluzione alternativa della controversia.
Dapprima con il D.lgs. n.28/2010, fu introdotto l’istituto della Mediazione civile, acciocché s’introducesse un filtro al modello processuale rendendo, per talune materie specifiche, l’istituto in parola una condizione di procedibilità indefettibile per poter accedere al processo.
In tal direzione, l’art.5, comma 1, del D.Lgs.n.28/2010, stabilisce che per alcune materie, ivi tassativamente indicate, l’esperimento della mediazione si pone come una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, il cui mancato assolvimento è sanzionato dal legislatore, ai sensi del comma 2 della prefata norma, con l’improcedibilità di quest’ultima.
Di, poi, con l’art.3, comma 1, del D.L.n. 132/2014, convertito, con modifiche, nella L.n.162/2014, fu introdotto anche l’istituto della Negoziazione Assistita, con lo scopo precipuo d’introdurre, anche in questo caso, uno strumento, di degiurisdizionalizzazione, che consentisse, unitamente ad altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile, per quelle controversie che avessero ad oggetto, tra l’altro, la richiesta d’una somma di denaro, nel limite di cinquantamila euro, d’addivenire ad un accordo tra i disputanti.
Anche in tal caso, per le controversie dianzi indicate, oltre a quelle aventi ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni da circolazione di veicoli e natanti, l’esperimento della negoziazione assistita, ai sensi del comma 2 della citata norma, costituisce una condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Dall’esame del dettato normativo degli istituti in scrutinio, emerge che entrambi prevedono, rispettivamente, al comma 2 del dell’art. 5 del D.lgs. n. 28/2010 ed al comma 1 dell’art. 3 del D.L.n.132/2014, che il mancato assolvimento del preventivo meccanismo deflattivo possa esser eccepito dal convenuto ovvero rilevato dal giudice non oltre la prima udienza.
Come abbiam già detto, i due istituti in commento, son orientati a “scoraggiare” l’ingresso nelle aule delle sedi giudiziarie.
In quest’ottica, emerge la funzione della mediazione ed, ancor più chiaramente, dalle coordinate espresse dalla Suprema Corte, la quale ha potuto ben precisare, in materia, che essa assolve ad una funzione deflattiva, e proprio in ragion di ciò va “…interpretata alla luce del principio costituzionale del ragionevole processo e, dunque, dell’efficienza processuale…”. (Cass. civ., Sez.III, Sent. n. 24629 del 3 dicembre 2015).
In altre parole, rispetto alla mediazione, ma il ragionamento si può ben estendere anche alla negoziazione assistita, il processo si offre come l’estrema ratio, vale a dire l’ultima possibilità allorché le alternative di definizione ovvero di componimento della controversia non han sortito l’effetto deflattivo.

2. Il cumulo tra la mediazione civile e la negoziazione assistita

Bene. Certo quanto sopra, che cosa potrebbe accadere se, rispetto ad una controversia, i due istituti dalla vocazione deflattiva venissero a “convivere”. Eppure, la domanda non è, poi, così “pellegrina” rispetto al formante giurisprudenziale delle corti di merito.
Anzitutto, sarebbe più corretto discettare, con riguardo ai due istituti in parola, di cumulo, laddove essi vengano evocati, al persistere dei parametri di legge, per comporre una controversia vertente in una materia che si ponga, per così dire, in maniera trasversale, nel senso, cioè, che essa possa esser oggetto sia dell’uno che dell’altro istituto deflattivo.
Valga, per quanto concerne la valutazione appena espressa, in tal senso la giurisprudenza di merito che, a proposito di coesistenza della mediazione e della negoziazione assistita, discetta, più appropriatamente, di “cumulo” tra i due istituti processuali deflattivi. (Cfr. Trib. Verona, Sez. III, Ord. del 23 dicembre 2015).

3. L’orientamento della giurisprudenza di merito

Cosicché, apprendiamo, dall’elaborazione giurisprudenziale delle corti territoriali, che la mediazione prevale sulla negoziazione assistita, laddove il giudizio abbia ad oggetto le some dovute in materia d’inadempimento al pagamento del canone di locazione.
Precisamente, nel precedente giurisprudenziale in commento, entrambi i conduttori insorgevano avverso il decreto ingiuntivo promosso dal locatore onde ottener, per ogni giorno di ritardo rispetto all’obbligo di riconsegna dell’immobile, il pagamento della penale, peraltro, concordata in sede di mediazione avviata a seguito della domanda giudiziale d’adempimento dei canoni di locazione impagati.
Ecco che, sull’eccezione di rito sollevata dai conduttori circa l’improcedibilità della domanda monitoria per il mancato esperimento della negoziazione assistita, avendo il giudizio, secondo la prospettata difesa dei convenuti, ad oggetto la richiesta di pagamento d’una somma di denaro d’importo non superiore ai cinquantamila euro, rilevare il Giudicante che, comunque, il credito azionato in fase monitoria trovava fondamento in un accordo concluso in sede di mediazione obbligatoria.
Posto che l’art. 3, comma 3, del D.L. n. 132 del 2014, prevede che “La disposizione di cui al comma 1, non si applica …nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l’opposizione…”, lo stesso Giudicante rileva, altresì, che la procedura di negoziazione assistita sarebbe “ultronea”, ed, anzi, in contrasto con quanto sancito dal comma 5 della prefata norma, a mente della quale “Restano ferme le disposizioni che prevedono speciali procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati…”. (Trib. Roma, Sez. VI, Sent. n. 4817 del 23 marzo 2023).
Ne discende, per il Giudicante, la prevalenza della mediazione civile rispetto alla negoziazione assistita.
A ben vedere, tuttavia, l’orientamento emerso dalla pronuncia in scrutinio, teso a valorizzare la prevalenza della mediazione civile sulla negoziazione assistita, laddove la materia oggetto della controversia si offre come trasversale, ossia comune, in astratto, ad entrambi i procedimenti deflattivi processuali, riflette una posizione che sembra aver motivazioni più profonde.
Ed, infatti, dallo stesso distretto giudiziario cui è applicato il Giudicante la cui pronuncia abbiam, ora, esaminato, emerge, invero, come l’orientamento volto a dar prevalenza alla mediazione civile rispetto alla negoziazione sia espressione d’una riflessione che affonda le sue radici nella struttura ontologica della stessa mediazione.
L’indagine, dunque, s’incentra sulla terzietà della pronuncia resa nella mediazione civile rispetto alla negoziazione assistita. E ciò in quanto nella mediazione civile le parti son chiamati a devolvere la controversia, ai sensi dell’art. 8 del D.lgs. n.28/2010, ad un terzo, il mediatore, ossia ad un soggetto estraneo che, stante le disposizioni poste dall’art.14 del testo normativo evocato, agisce in posizione d’imparzialità.
Di contro, si osserva che, nell’ambito del procedimento della negoziazione assistita, son gli avvocati delle parti ad avviare, ove ricorrano le condizioni di legge, la medesima procedura deflattiva. Quivi, pertanto, si registra l’assenza d’un terzo, che agisca, come nella mediazione civile, in funzione di “mediatore”.
E che questa sia la riflessione profonda è corroborata proprio dall’orientamento della giurisprudenza di merito di cui prima si faceva cenno laddove si afferma che “…la mediazione obbligatoria, comportando la presenza di un terzo imparziale quale il mediatore, offre maggiori garanzie rispetto alla negoziazione assistita che ne è priva. Per tale motivo la mediazione obbligatoria deve ritenersi utilmente effettuata anche nei casi in cui è previsto il diverso procedimento della negoziazione assistita…”. (Trib. Roma, Sezione specializzata in materia di imprese, Sent. n. 11431 del 18 luglio 2022).

4. L’orientamento della giurisprudenza costituzionale

Nondimeno, l’orientamento emerso dalle corti territoriali in commento, riflette, a ben guardare, il pensiero, se così possiamo dire, espresso, in merito, dal Giudice delle Leggi, secondo il quale “…il procedimento di mediazione è connotato dal ruolo centrale svolto da un soggetto, il mediatore, terzo e imparziale, là dove la stessa neutralità non è ravvisabile nella figura dell’avvocato che assiste le parti nella procedura di negoziazione assistita.”. (Corte Cost., Sent. n. 97 del 18 aprile 2019).
E che tale sia l’indirizzo giurisprudenziale speso dalle corti territoriali, in merito alla constatata disomogeneità degli istituti deflattivi in scrutinio, si registra sol passando in rassegna alcune pronunce espresse in tal senso, ove si afferma che “…nella mediazione il compito (…) di assistenza alle parti nella individuazione degli interessi in conflitto e nella ricerca di un punto d’ incontro è svolto da un terzo indipendente e imparziale, nella negoziazione l’analogo ruolo è svolto dai loro stessi difensori…”. (Trib. Roma, Sez. XIII, Ord. del 12 aprile 2021).
Anzi, proprio la circostanza fattuale che, invero, nella mediazione civile, il compito d’assistenza alle parti, nella ricerca d’una soluzione condivisa, è svolta da un terzo soggetto, indipendente ed imparziale, è stata ben messa in risalto dalla stessa Corte costituzionale chiamata a valutare se la mediazione tributaria, introdotta dall’art. 17, bis, comma 5, del D.lgs. n.546/1992, collida o meno con i parametri costituzionali di cui agli artt. 3, 24, 25, 111, Cost.
Ed, invero, il Giudice delle Leggi, respingendo, da quest’angolazione, come, ivi, prospettata, la sollevata illegittimità costituzionale della predetta norma, rispetto agli evocati parametri costituzionali, per quanto, quivi, d’interesse, ha ben posto in risalto, finanche, la differenza tra la mediazione tributaria e la mediazione civile disciplinata dal D.lgs. 28/2010, rimarcando come nella prima la mediazione sia demandata ad un organo interno dell’amministrazione finanziaria, sicché non estraneo, mentre, invece, nella seconda essa è affidata ad un soggetto terzo, autonomo ed indipendente. (Corte Cost., Sent. n. 98 del 16 aprile 2014).
Precisa, al riguardo, il Giudice delle Leggi che “…Tale mancanza di un soggetto terzo che, come avviene per la mediazione delle controversie civili e commerciali disciplinata dal d.lgs. n. 28 del 2010 (…) svolga la mediazione, se comporta l’impossibilità di ricondurre la mediazione tributaria al modello di quella civilistica (…) non determina, tuttavia, alcuna violazione degli invocati parametri costituzionali…”. (Corte Cost., N. 98 del 2014, cit.).
Dalla giurisprudenza in rassegna, ne ricaviamo, pertanto, nella prospettiva d’un cumulo tra la negoziazione assistita e la mediazione civile, la preferenza espressa all’indirizzo di quest’ultima, caratterizzata dall’intervento d’un terzo cui le parti si affidano onde trovare una soluzione finalizzata al componimento della controversia, acciocché si assecondi la ratio del detto istituto orientata, giustappunto, ad una funzione deflattiva che rappresenti l’ingresso nel processo come l’estrema ratio.
Come già detto dianzi, il comma 5, dell’art. 3, del D.L.n. 132/2014, coordinato col comma 1 della norma da ultimo citata, va letto, secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza di merito, nel senso d’una disposizione che contempli il cumulo “…tra la negoziazione assistita obbligatoria  e le procedure stragiudiziali obbligatorie per legge o per previsione contrattuale o statutaria, salvo che la controversia non sia soggetta alla mediazione obbligatoria ex lege, perché in tal caso solo questa procedura va esperita…”. (Trib. Torre Annunziata, Sez. II, Sent. n. 740 del 23 marzo 2018).
Di fronte, quindi, alla potenziale coesistenza tra la mediazione civile e la negoziazione assistita, entrambe vertenti in materie soggette sia all’uno che all’altro strumento deflattivo, “il conflitto”, se par lecito così definirlo, viene dalla giurisprudenza di merito in esame risolto accordando prevalenza alla mediazione civile, perdendo così, per tal via, la negoziazione assistita il carattere dell’obbligatorietà.

5. Il giudice di seconda istanza

Anche per il Giudice di seconde cure, il comma 5, dell’art. 3, del D.L.n. 132/2014, va interpretato nel senso, cioè, di cogliere l’opportunità di evitare “…l’aggravamento conseguente all’ imposizione di queste due specifiche condizioni di procedibilità e di dare prevalenza al procedimento di mediazione obbligatoria nelle ipotesi di potenziale cumulo tra la negoziazione assistita e la mediazione…”. (Corte di Appello di Napoli, Sez.VI, Sent. n.3147 del 26 giugno 2018).
E tal predilezione verso l’istituto della mediazione civile, trova la sua ragion d’esser proprio nella terzietà del soggetto cui è demandato, ex lege, il compito d’elaborare ed offrire alle parti in conflitto una proposta conciliativa orientata ad una soluzione della controversia, evitando, fin dove possibile, l’ingresso nel processo.
Ed, anzi, scrutinando la giurisprudenza innanzi commentata, emerge come anche la mediazione non obbligatoria ex lege si offra come un’alternativa preferibile rispetto alla negoziazione assistita facendo perno tal conclusione sulla ratio dell’istituto in parola, ove emergerebbe il dato oggettivo dell’imparzialità e dell’indipendenza del terzo, quale mediatore, rispetto agli altri istituti processuali deflattivi. (Trib. Torre Annunziata, Sent. n. 740 del 2018, cit.).

6. Conclusioni

Possiamo ben dire che, alla fine di questo percorso ermeneutico, che alcuna pretesa esaustiva vuol invocare in tal materia, ciò che la giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito, quivi rassegnate, ci offrono, è l’insegnamento d’un approccio operativo, direi pratico, in specie per gli operatori del diritto, verso l’applicazione dell’istituto deflattivo della mediazione civile. Ampie son le materie soggette, ex lege, al preventivo obbligo della mediazione, pena, per l’appunto, la declaratoria dell’improcedibilità della domanda giudiziale. Chi si appresta ad incardinare un processo in sede civile, ben conosce che, ove si tratti di materie che devono esser soggette, ex lege, al tentativo di conciliazione stragiudiziale, deve esperire la mediazione. Eppure, ciò che la detta giurisprudenza ci offre sono le coordinate per navigare laddove la mediazione civile e la negoziazione assistita coesistano rispetto a materie entrambe soggette ai nominati istituti processuali deflattivi. Ed, in tal direzione, la soluzione che ci vien offerta, attingendo dalla giurisprudenza commentata, è quella dell’accordata prevalenza alla mediazione civile, e ciò considerando che la decisione della controversia vien rimessa ad un terzo soggetto, come tale imparziale ed indipendente.
Una preferenza che, a dir proprio della giurisprudenza d’alcune corti territoriali menzionate, si spinge finanche a prediligere la mediazione civile anche là dove essa non sia obbligatoria ex lege. Ciò in quanto la ratio della mediazione civile, che è proprio quello di affidare la composizione della controversia ad un terzo, meglio d’altri istituti deflattivi garantirebbe le parti circa un procedimento stragiudiziale condotto da un soggetto ad esse estraneo ed equidistante.

E-mail Stampa PDF
Ultimo aggiornamento Mercoledì, Giugno 14 2023
  
10
Giugno
2023

Aziende: diritto alla restituzione degli interessi per le aperture di credito;

Le aziende hanno diritto alla restituzione degli interessi se il contratto di apertura di credito non stabilisce una effettiva pari periodicità della capitalizzazione degli interessi. Le banche devono restituire milioni di euro alle aziende;

  • Interessi anatocistici
  • L'indicazione della misura degli interessi
  • L'applicazione della reciprocità degli interessi
  • L'accertamento giudiziale
  • La preliminare verifica del contratto

Interessi anatocistici

Tutte le volte in cui nel contratto di conto corrente il tasso annuo nominale (TAN) coincide con il tasso annuo effettivo (TAE) o, comunque, se il tasso a favore del cliente è meramente simbolico, la clausola degli interessi anatocistici rimane priva di efficacia. Dunque il correntista potrà richiedere la restituzione delle somme pagate indebitamente per effetto dell'anatocismo.

L'indicazione della misura degli interessi

Va chiarito, per comprenderne il motivo, che nel contratto di apertura di credito, per legge, deve essere indicata la misura degli interessi debitori e di quelli creditori con le specifiche circa la periodicità contrattualmente stabilita. Ma affinché gli interessi stabiliti a favore della Banca siano legittimi è necessario che venga stabilità una pari periodicità della capitalizzazione (mensile, trimestrale,ecc.), per gli interessi a debito e a credito e che la pattuizione avvenga in maniera specifica e per iscritto. Invero, l'art. 6 della delibera Cicr del 9 febbraio 2000 prevede : "I contratti relativi alle operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito stipulati dopo l'entrata in vigore della presente delibera indicano la periodicità di capitalizzazione degli interessi e il tasso di interesse applicato. Nei casi in cui è prevista una capitalizzazione infrannuale viene inoltre indicato il valore del tasso, rapportato su base annua, tenendo conto degli effetti della capitalizzazione. Le clausole relative alla capitalizzazione degli interessi non hanno effetto se non sono specificamente approvate per iscritto".

L'applicazione della reciprocità degli interessi

Tuttavia, nonostante tale disposizione, molte Banche non hanno proceduto ad applicare realmente la reciproca capitalizzazione degli interessi, ricadendo così nell'anatocismo vietato dall'art. 1283 c.c. e, conseguentemente, rendendo nulla la clausola che disciplina il pagamento degli interessi. Infatti, in molti casi, nonostante l'apparente periodicità della capitalizzazione (per es. trimestrale) il tasso di interesse creditore è così basso che non genera, di fatto, alcun effetto anatocistico, violando, quindi, l'indicata delibera Cicr . Tale nullità comporta necessariamente che il correntista ha diritto ad ottenere la restituzione, si sensi dell'art. 2033 c.c., degli importi pagati a titolo di interessi anatocistici.

L'accertamento giudiziale

Il principio risulta, da ultimo, affermato dal Tribunale di Brindisi, in persona del giudice Stefano Marzo, con l'ordinanza resa il 17/05/2023 che richiama i principi espressi dalla Corte di Cassazione del 10 febbraio 2022 n. 4321 ed afferma: "il CTU, in tema di anatocismo, dovrà considerare che, in caso di difetto di reciprocità, nell'ipotesi che il tasso a favore del cliente della banca sia stato meramente "simbolico" (nel caso di specie parrebbe tale, essendo appena dello 0,5%), il criterio da seguire sarà quello indicato dalla Corte di Cassazione con Ord. n. 4321 del 10.02.2023 e cioè l'esclusione dell'anatocismo". In altre parole il Giudice chiede al consulente tecnico d'ufficio (CTU) di ricalcolare l'esatto ammontare del rapporto di conto corrente, eliminando la capitalizzazione degli interessi, qualora la clausola di reciprocità del conto corrente di cui è causa non comporti un effettivo incremento per il tasso creditore. Alla stregue di tale ordinanze diverse sono pronunce dei Giudici del Tribunale di Brindisi dello stesso tenore.

La preliminare verifica del contratto

E' bene evidenziare che la presenza o l'assenza di tale reciprocità degli interessi emerge, in diversi casi, direttamente dalla condizioni inserite nel contratto. Perciò, controllando il contratto di apertura di credito in conto corrente, è possibile stabilire se sono stati o meno pagati interessi illegittimi, salva la loro quantificazione a seguito di un conteggio più analitico. Perciò prima di agire in giudizio è essenziale procedere alla verifica delle clausole contenute nel contratto di apertura di credito in conto corrente.

E-mail Stampa PDF
Ultimo aggiornamento Sabato, Giugno 10 2023
  
09
Giugno
2023

Amministratori di condominio "incompresi"

Gli amministratori di condominio sono gli eterni professionisti non riconosciuti per legge, un unicum tutto italiano;

  • Amministratore di condominio, professione non regolamentata
  • Requisiti iscrizione (facoltativa) associazioni di categoria
  • Aspetti deontologici
  • Unicum italiano

Amministratore di condominio, professione non regolamentata

"Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità" diceva Camillo Benso, conte di Cavour. Se si tratta di dignità professionale, però, diventa arduo rivendicarne una propria in assenza di qualsivoglia riconoscimento giuridico.

E' questo il caso degli amministratori di condominio, eterni professionisti non riconosciuti ex lege.

Sì, per legge, perché il primo a non riconoscerli è proprio il legislatore, considerato che li inserisce nel limbo delle professioni non regolamentate, disciplinate (si fa per dire) dalla L. 4/13, che impone loro il diritto/dovere di contraddistinguere la propria attività in qualsiasi documento "con l'espresso riferimento, quanto alla disciplina applicabile, agli estremi della presente legge": una sorta di generico bollino sulla carta intestata, insomma, nulla di piSe vogliono, tali professionisti hanno "il diritto di costituire associazioni senza l'obbligo di iscrizione ad un albo" e, sempre se vogliono, tali associazioni si possono iscrivere nell'Albo delle Associazioni degli Amministratori di condominio depositato presso il MISE, un registro di natura meramente amministrativa che raccoglie semplici autodichiarazioni di possedere i requisiti previsti dalla L.220/12. Il risultato di tali "diritti facoltativi" è che delle circa 52 associazioni di categoria presenti sul territorio nazionale, solo 17 sono quelle iscritte al MISE.

Requisiti iscrizione (facoltativa) associazioni di categoria

Ma quali sono i requisiti per iscriversi facoltativamente alle associazioni di categoria, costituite sempre su base volontaria, di cui alla L. 220/12, meglio nota come "riforma del condominio"?

Si legga l'art. 71 bis disp. att. c.c.: "godere dei diritti civili (ossia essere umani), non aver subito condanne "per delitti contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni" e non essere "stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione" (ossia non essere delinquenti), "non essere interdetti o inabilitati" (ossia essere capaci di intendere e volere); non essere annotati "nell'elenco dei protesti cambiari" (quindi essere più o meno solvibili e solventi), "avere conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado" (possedere il c.d. straccio di diploma); "aver frequentato un corso di formazione iniziale e svolgono attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale". A ben vedere gli unici due requisiti che distinguono l'amministratore dal quisque de populo sono l'avere un diploma e una formazione. Lo sconforto diventa totale se si prosegue nella lettura del citato articolo, perché proprio questi due requisiti non sono necessari per l'amministratore interno, ossia quello nominato tra i condomini dello stabile. Con un solo comma, il legislatore lascia intendere che l'amministratore lo può fare chiunque, anche il vicino di pianerottolo. Con il successivo decreto ministeriale n. 140 del 2014 si è cercato di dare una parvenza più dignitosa inserendo l'obbligo di formazione periodica, il che, però, ha scatenato la fantasia di organismi vari che offrono a prezzi stracciati sedicenti corsi abilitanti che alla fine rilasciano meri 'attestati di frequenza', pezzi di carta validi solo per riempire pareti, creando confusione tra gli utenti e facendo concorrenza agli enti certificati e gli ordini di riferimento accreditati dal Ministero, ossia gli unici realmente abilitanti. La new entry nel campo della formazione è la laurea triennale in amministrazione condominiale proposta dalla neonata Facoltà di Esperto amministrativo Amministratore di Condominio, la quale, però, fa parte non di una università iscritta al MIUR, ma di una "accademia universitaria" privata. Singolare che per accedere al corso sia previsto un test di ammissione, quando per esercitare la professione di amministratore non è richiesto nulla di simile. Infine, che l'amministratore non sia un professionista come tutti gli altri è confermato dal fatto che non è obbligato ad avere la pec: come noto, è obbligatoria dal primo ottobre 2020 per professionisti ed imprese, dove per professionisti si intende solo quelli iscritti a ordini o collegi. Ed è un obbligo talmente importante che se i professionisti non si adeguano sono soggetti alla sanzione disciplinare della sospensione. Non esistendo un ordine per gli amministratori di condominio che li obblighi ad avere una PEC, e non essendo obbligatorio iscriversi ad una associazione di categoria, gli amministratori "freestyle" non iscritti ad albi professionali né che operano in forma d'impresa possono non avere la pec e, se ce l'hanno, possono non iscriverla nei registri pubblici della posta certificata, il che impedisce, ad esempio, la notifica di atti giudiziari via pec, diventata con la riforma Cartabia la regola, relegando la notifica tramite posta ordinaria a eccezione. Tirando le somme, trova conferma che la professione di amministratore non è riconosciuta per legge e per esercitarla non è richiesto un preventivo esame abilitante come per le professioni riconosciute, ossia quelle ordinistiche. Non esiste un albo degli amministratori, la cui iscrizione è conditio sine qua non per l'esercizio della professione unitamente al superamento di uno specifico esame abilitante avente fonte normativa, ma un albo delle associazioni degli amministratori, un mero registro che contiene l'elenco di associazioni costitute su base volontaria, di natura privatistica e senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva (art. 2 L.4/13), quindi non enti pubblici come gli ordini professionali regolamentati dal Ministero di Grazia e Giustizia e retti da un organo di autogoverno, ossia il Consiglio, eletto dagli iscritti. Anche sotto l'aspetto deontologico la professionalità non è garantita: mentre la violazione del Codice deontologico, di fonte normativa, comporta sanzioni di graduale gravità fino alla radiazione, quindi al divieto di esercizio della professione, la violazione delle eventuali norme di comportamento autodettate dalle associazioni degli amministratori comporta, al massimo, la cancellazione da quell'albo: ricordando che la costituzione in associazione è volontaria, l'iscrizione ad essa pure, l'epurato sarà libero di iscriversi ad altra associazione o a nessuna, oltre a poter continuare a fare l'amministratore. Tutela per gli amministrati e per la dignità della categoria? Nessuna. Anche perché, dato che l'incarico all'amministratore trova fonte nel contratto di mandato (art. 1703 c.c.), per revocarglielo serve pure una valida delibera assembleare oppure ricorrere al giudice per gravi irregolarità (art. 1129 c.c., co.11). L'amministratore di condominio, quindi, di fatto e anche un po' di diritto è equiparato a un privato cittadino qualsiasi, al quale si chiede solo un obbligo formativo, soddisfatto il quale potrà svolgere una professione non riconosciuta che comporta competenze multidisciplinari (perché l'amministratore deve essere un po' avvocato, commercialista, ingegnere, consulente del lavoro, psicologo, ecc. ecc.) e l'assunzione di responsabilità sempre più gravose e per di più civilmente, amministrativamente e penalmente rilevanti. Il paradosso si fa grottesco ricordando che perfino l'assicurazione professionale è eventuale ex lege: in forza dell'art. 1129 c.c., "l'assemblea può subordinare la nomina dell'amministratore alla presentazione ai condòmini di una polizza individuale di assicurazione". Per fortuna soccorrono le associazioni di categoria, che però, come ricordato sopra, sono soggetti di diritto privato costituite su base volontaria e senza vincolo di rappresentanza esclusiva e non è obbligatorio iscriversi ad esse. Comparando la situazione degli amministratori di condominio in Italia con i colleghi europei, si ricava che nel nostro Paese sono quasi più del triplo, probabilmente proprio perché tale incarico viene svolto spesso da singoli condòmini (pensionati e dopolavoristi) che si improvvisano amministratori per "far risparmiare". Più in generale, l'Italia è l'unica nazione che non regola la professione di amministratore, pur aumentandone costantemente le responsabilità, basti pensare al delirio dei bonus edilizi. Non solo: in Italia gli amministratori sono anche i meno pagati d'Europa, € 8/mese per unità immobiliare contro, ad esempio, € 25/mese in Germania. Che poi, sul punto, fa specie calcolare un compenso a unità immobiliare, perché il metro di misura dovrebbe essere la qualità e non la quantità. Lo stesso dicasi sull'oramai anacronistico obbligo di nominare un amministratore di condominio solo quando i condòmini sono più di otto (art. 1129 c.c.), come se palazzine di sette appartamenti fossero esenti dalle stesse problematiche di quelle più grandi per quanto attiene, tanto per fare un esempio banale, al rispetto delle normative anti-incendio e di sicurezza. Forse, piuttosto che inventarsi costi abilitanti da vendere su Groupon, sarebbe giunta l'ora di dare reale e concreta dignità ad una professione che la merita e che la aspetta davvero da troppo tempo.

E-mail Stampa PDF
Ultimo aggiornamento Venerdì, Giugno 09 2023
  
06
Giugno
2023

Leasing immobiliare e clausola di salvaguardia: spetta alla banca dimostrare il rispetto del tasso soglia;

La clausola che impone di osservare il tasso soglia è oggetto di un’obbligazione contrattuale ed è onere della società di leasing dimostrarne l’adempimento (Cass. Ordinanza 15 Maggio n. 13144/2023)

SINTESI: Il Codice civile dispone che, qualora tra le parti siano convenuti interessi usurari, la relativa clausola sia nulla e nessun interesse sia dovuto (art. 1815 c. 2 c.c.). Per questa ragione, gli istituti di credito, onde evitare di perdere gli interessi a causa di una declaratoria di nullità, sono soliti inserire nei contratti di mutuo (o di leasing immobiliare) una clausola di salvaguardia. Per scongiurare che la fluttuazione del tasso convenzionale di mora possa superare il “tasso soglia” imposto dalla disciplina antiusura (art. 2 legge 108/1996), con la suddetta clausola, la banca (o la società di leasing) si impegna a non applicare mai, per tutta la durata del rapporto, interessi in misura superiore a quella massima consentita dalla legge. Tale pattuizione assume rilievo sotto il profilo della ripartizione dell’onere probatorio. Infatti, trattandosi di una specifica obbligazione, che la banca assume nei confronti del soggetto finanziato, grava sulla banca stessa l'onere della prova di aver regolarmente adempiuto all'impegno assunto. Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ordinanza 15 maggio 2023, n. 13144. La pronuncia è interessante perché ribadisce che la disciplina antiusura trova applicazione sia per gli interessi corrispettivi (ed ai costi posti a carico della parte finanziata nell’ipotesi di regolare adempimento del contratto), sia per gli interessi moratori (ed ai costi posti a carico della parte come conseguenza dell'inadempimento). Al fine di valutare l’usurarietà (o meno) del tasso non è possibile applicare il criterio della sommatoria tra tasso corrispettivo e tasso di mora, atteso che le due tipologie di interessi hanno presupposti diversi.

La vicenda

Un istituto di credito viene evocato in giudizio dalla società con cui ha concluso un contratto di leasing, a tasso variabile, e dal fideiussore, per un importo di circa 184 mila euro. Per quanto qui di interesse, gli attori chiedono di accertare sia l’usurarietà del finanziamento sia non la debenza degli interessi (ex art. 1815 c. 2 c.c.) e, conseguentemente, dichiarare la società creditrice di circa 33 mila euro. Gli attori chiedono, altresì, di accertare, l’invalidità dell’applicazione degli interessi debitori e anatocistici, oltre al risarcimento del danno. In primo e secondo grado, le domande vengono rigettate. Al fine di dimostrare il tasso usurario, gli attori hanno sommato i tassi degli interessi moratori e corrispettivi, affermando che il saggio risultante sia superiore a quello fissato dalla disciplina antiusura. Secondo i giudici di merito, la suddetta sommatoria è scorretta, perché riguarda elementi eterogenei: gli interessi corrispettivi rappresentano la remunerazione del capitale residuo preso a mutuo, mentre gli interessi moratori sono dovuti a causa dell’inadempimento del mutuatario. Inoltre, l’interesse è stato ritenuto non usurario stante la presenza della clausola di salvaguardia contenuta nel contratto di leasing e considerata legittima. Si giunge così in Cassazione.

Premessa: differenza tra interessi corrispettivi e moratori

Gli interessi di pieno diritto o corrispettivi (art. 1282 c.c.) sono quelli prodotti dal denaro in virtù del principio della naturale fecondità (C.M. BIANCA, Diritto Civile. L’obbligazione, 4, Milano, Giuffrè, 1993, § 92). Il denaro è un bene fruttifero, in altre parole si può dire che il denaro genera altro denaro, sotto forma di interessi. Gli interessi corrispettivi sono dovuti a titolo di remunerazione (funzione remunerativa), in cambio del vantaggio che il debitore consegue grazie alla disponibilità del denaro altrui. In altre parole, il fatto che al debitore sia data la possibilità di servirsi di un capitale viene remunerato tramite la corresponsione degli interessi. Gli interessi moratori traggono origine da un ritardo nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria (art. 1224 c.c.), ossia un’obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro. Al soggetto che riceve con ritardo la prestazione spettano, dal giorno della mora, gli interessi per il ritardo, anche se non ha subito alcun danno; rappresentano una sorta di ristoro per il ritardo (la mora) con cui il creditore riceve il pagamento (funzione risarcitoria). Un particolare tipo di interessi moratori è rappresentato dagli interessi commerciali di cui al d.lgs. 231/2002.

Riassumendo:

  • gli interessi dovuti per il mero uso di denaro altrui sono corrispettivi (art. 1282 c.c.),
  • gli interessi pagati a causa del ritardo nell’adempimento sono moratori (art. 1224 c.c.).

Mentre gli interessi corrispettivi sono dovuti a prescindere dalla colpa del debitore, gli interessi moratori non sono dovuti se il debitore dimostra che il ritardo è dipeso da un fatto a lui non imputabile.

Una volta chiarita la differenza tra le due tipologie di interessi, torniamo alla disamina della decisione.

La disciplina antiusura si applica anche agli interessi moratori

I ricorrenti lamentano che i giudici di merito abbiano escluso la sommatoria dei tassi degli interessi corrispettivi e moratori ai fini dell’applicazione della normativa antiusura; inoltre, anche senza ricorrere alla somma dei saggi, quello moratorio, da solo, risulta superiore al “tasso soglia”. Infine, censurano il fatto che la clausola di salvaguardia sia stata ritenuta valida, solo perché sufficientemente chiara e non diretta a far conseguire vantaggi illeciti a nessuna delle parti.

La Suprema Corte considera fondate le doglianze nei limiti che seguono.

In merito alla disciplina antiusura, la giurisprudenza ha chiarito che essa trova applicazione non solo con riguardo agli interessi corrispettivi, ossia gli interessi posti a carico del mutuatario per il regolare adempimento del contratto, ma anche con riferimento agli interessi moratori, vale a dire gli interessi che gravano sul mutuatario in caso di inadempimento. Le Sezioni Unite hanno affermato che la disciplina in materia di usura intende colpire la promessa di qualsiasi somma che risulti usuraria:

  • «la disciplina antiusura si applica agli interessi moratori, intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso» (Cass. SS. UU. 19597/2020).

Una volta acclarato che la disciplina in materia di usura opera anche in relazione agli interessi moratori, occorre stabilire quando il tasso dell’interesse di mora risulti usurario e quali conseguenze abbia sul contratto l’eventuale accertata usurarietà dei soli interessi moratori. In proposito, la giurisprudenza ha chiarito che:

  • la soglia antiusura per gli interessi moratori è diversa e più alta di quella prevista per gli interessi corrispettivi,
  • l’usurarietà del tasso di interesse moratorio non incide sulla validità della pattuizione degli interessi corrispettivi né sull’obbligo di pagamento degli stessi (sempre che la clausola relativa agli interessi corrispettivi risulti rispettosa della normativa antiusura).

No al principio di sommatoria dei tassi degli interessi corrispettivi e di mora

Riassumendo, la giurisprudenza (Cass. 14214/2022) è costante nell’affermare che:

  • il tasso degli interessi moratori è soggetto alla disciplina antiusura,
  • i due tassi (per interessi moratori e corrispettivi) vanno valutati diversamente e separatamente.

Pertanto, non è possibile una disamina caratterizzata dalla ricostruzione di un tasso unitario, frutto della sommatoria dei singoli saggi. In altre parole, è errata la tesi dei ricorrenti secondo cui occorrerebbe operare una sintesi dei due tassi da confrontare con la soglia antiusura. Infatti, la finalità e la funzione delle due tipologie di interessi è diversa:

  • gli interessi corrispettivi sono gli interessi di pieno diritto conseguenti all’adempimento del contratto
  • gli interessi moratori derivano dall’inadempimento o dal ritardato adempimento.

Per valutare la soglia di usurarietà non è possibile ricorre al “principio di sommatoria” dei tassi degli interessi corrispettivi e di mora, così creando un tasso unico, giacché, in tal modo, non si distingue tra costi correlati al regolare adempimento del contratto e costi correlati al suo inadempimento (Cass. 14214/2022). Pertanto, tale criterio1 è incompatibile con i principi espressi dalle Sezioni Unite (Cass. SS.UU. 19597/2020), nonché dalla giurisprudenza successiva (Cass. 26286/2019, Cass. 31615/2021; Cass. 14214/2022). Tasso moratorio superiore al tasso soglia: pattuizione nulla

I ricorrenti lamentano che, anche senza effettuare la sommatoria dei tassi, nella fattispecie in esame, il tasso di mora sia superiore rispetto a quello soglia. Il contratto di leasing, stipulato nel 2007, prevedeva un tasso del 13,02% per gli interessi moratori a fronte del “tasso soglia” fissato al momento della conclusione del contratto al 9,51% (come da decreto ministeriale relativo al trimestre aprile, maggio, giugno 2007). La legge in materia di usura (art. 2 legge 108/1996) dispone la rilevazione trimestrale del tasso effettivo globale medio e rinvia alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dei decreti ministeriali recanti tale tasso. I suddetti decreti costituiscono «atti amministrativi di carattere generale ed astratto, oltre che innovativo, e quindi normativo, perché completano i precetti di rango primario in materia di usura inserendo una normativa di dettaglio». Tali decreti vanno, dunque, considerati come fonti integrative del diritto, che il giudice è tenuto a conoscere a prescindere dalle allegazioni delle parti, in base al principio iura novit curia (Cass. 35102/2022). Alla luce di quanto sopra, la pattuizione degli interessi moratori nella misura del 13,02% deve considerarsi nulla. Infatti, è nullo il patto con cui «si convengano interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui alla l. n. 108 del 1996, art. 2, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali e calcolato senza maggiorazioni o incrementi» (Cass. 27442/2018).

Clausola di salvaguardia e onere della prova gravante sulla banca

La nullità di cui sopra non può escludersi – come, invece, ha ritenuto il giudice di merito – per la presenza di una clausola di salvaguardia “sufficientemente chiara e valida” non essendo diretta a far conseguire vantaggi illeciti alla banca.Nel caso di specie, il contratto di leasing conteneva una clausola di salvaguardia a tenore della quale nel caso in cui, alla data di stipula del contratto, l'interesse di mora come determinato avesse superato il tasso soglia, si sarebbe proceduto alla rideterminazione dell'interesse al punto percentuale inferiore a quello soglia. La giurisprudenza ha rilevato che la clausola di salvaguardia serve ad evitare che, in presenza di un tasso variabile o modificabile unilateralmente dalla banca, la sua fluttuazione non oltrepassi mai il limite stabilito dalla legge (art. 2 c. 4 legge 108/1996). Sotto il profilo pratico, la clausola non opera a favore del cliente ma a vantaggio dell’istituto di credito. Infatti, nel caso in cui il tasso risultasse usurario, la relativa pattuizione sarebbe nulla e non sarebbero dovuti interessi (art. 1815 c. 2 cc). La clausola di salvaguardia, quindi, assicura che non venga mai superata la soglia dell'usura "oggettiva", escludendo, in tal guisa, il rischio che il tasso convenzionale sia dichiarato nullo e che nessun interesse sia dovuto alla banca (Cass. 26286/2019). La clausola di salvaguardia è legittima in quanto posta a presidio del rispetto del precetto d'ordine pubblico che fa divieto di pattuire interessi usurari. La presenza della clausola nel contratto ha delle conseguenze sotto il profilo della ripartizione dell’onere della prova. Infatti, essendo l'osservanza del “tasso soglia” oggetto di un’obbligazione contrattuale, «alla logica della violazione della norma imperativa si sovrappone quella dell'inadempimento contrattuale, con conseguente traslazione dell'onere della prova in capo all'obbligato, ossia alla banca» (Cass. 26286/2019).

E-mail Stampa PDF
Ultimo aggiornamento Martedì, Giugno 06 2023
  
02
Giugno
2023

Liti agrarie: tentativo di mediazione “preventivo” anche per la riconvenzionale;

SINTESI: Il tribunale di Cosenza con sentenza del 15/03/2023 n° 470/23, afferma che il tentativo obbligatorio di conciliazione in materia agraria investe anche la domanda riconvenzionale;

Tentativo di mediazione nelle controversie agrarie

Il tentativo obbligatorio di conciliazione in materia agraria, che deve essere sempre “preventivo”, investe anche la domanda proposta in riconvenzionale, a pena di improponibilità della domanda stessa. Così il tribunale di Cosenza nella sentenza n. 470/2023  del 15/03/2023 decidendo una controversia tra eredi su un terreno agricolo ricevuto in successione dal padre.

La vicenda

Gli eredi del proprietario del terreno chiedevano lo scioglimento del contratto d’affitto del fondo concesso dal de cuius al genitore dell’odierno resistente, per intervenuto decesso dell’affittuario del terreno, in mancanza dei presupposti di cui all’art 49L 203/82 in punto di subentro previsto nella sola ipotesi di eredi coltivatori diretti, per come accertato da precedente sentenza del tribunale di Cosenza, oltre al rilascio immediato del terreno e la condanna al pagamento dell’indennità da occupazione sine titulo fino alla data del decesso dell’affittuario. Il resistente evidenziava, dal canto suo, che non era stato esercitato il diritto di recesso ex art 1627 c.c., norma da ritenersi applicabile al caso di specie poiché l’art. 49 L. 203/1982 andava circoscritto all’ipotesi di contratto di affittanza a coltivatore diretto. E in via riconvenzionale chiedeva il pagamento dell’indennizzo di cui all’art 43 L. 203/1982.

La decisione

Il tribunale rileva anzitutto che la pretesa muove dall’assunto che il dante causa del resistente fosse un coltivatore diretto e che non vi fosse stato un subentro in favore dell’erede, in ragione dell’art. 49, ult. comma, L. 203/82, che presuppone, la sussistenza in capo a quest’ultimo della qualità di coltivatori diretti ovvero di imprenditore a titolo principale, requisito questo non riscontrato nel diverso giudizio definito con sentenza dal medesimo tribunale. Nella specie, a fronte di tali specifiche allegazioni, il resistente negava l’applicazione dell’art. 49 L. 203/82 senza tuttavia specificamente contestare la qualità di coltivatore diretto in capo all’affittuario. Per cui, il giudice riteneva doversi dichiarare sciolto il contratto di affitto e condannava il resistente, detentore sine titulo, al rilascio immediato del fondo, libero e sgombero da persone, animali e cose. Accoglieva anche la domanda di condanna del resistente al pagamento di una indennità per occupazione senza titolo del terreno in questione.

Tentativo di mediazione e riconvenzionale

Quanto alla domanda riconvenzionale spiegata dal resistente, il giudice dichiarava la stessa inammissibile, poiché non preceduta dal tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art 11 del D.lgs 150/2011. Sul punto, difatti, afferma il giudicante, “la norma suddetta riproduce il contenuto precettivo dell’art. 46 della legge n. 203 del 1982, sottoponendo alla condizione di proponibilità le domande giudiziali che hanno ad oggetto le controversie ‘in materia di contratti agrari’ (comma 1) e, per orientamento pacifico della giurisprudenza di legittimità, il tentativo di conciliazione in materia agraria deve essere sempre ‘preventivo’, cioè attivato prima dell’inizio di qualsiasi controversia (cfr. Cass. Civ. n. 2046/10)”. L’inciso secondo cui “chi intende proporre in giudizio una domanda relativa a una controversia” in materia agraria, lascia intendere, prosegue il tribunale, “che anche la domanda proposta in riconvenzionale è soggetta alla condizione di ‘proponibilità’, la cui mancanza, comporta la definizione della causa con sentenza dichiarativa di improponibilità della relativa domanda”. Per cui, in definitiva, il tribunale accogliendo in toto la domanda degli eredi, dichiara improponibile anche la domanda riconvenzionale del resistente, condannandolo alle spese di lite.

E-mail Stampa PDF
Ultimo aggiornamento Venerdì, Giugno 02 2023
  

Altri articoli...

Pagina 6 di 28

Copyright © 2023 Omci - Organismo di Mediazione e Conciliazione Italia. Tutti i diritti riservati.
Joomla! è un software libero rilasciato sotto licenza GNU/GPL.
Copyright © 2023 Omci - Organismo di Mediazione e Conciliazione Italia. Tutti i diritti riservati.
Joomla! è un software libero rilasciato sotto licenza GNU/GPL.