+ - =
+/-
OMCI - Organismo di Mediazione

Le ''altre'' fonti del potere disciplinare nel pubblico impiego: codice di comportamento e legge;

Ciascuna Pa deve definire un proprio codice di comportamento, integrativo di quello ''tipo'' adottato dal Governo, la cui violazione è fonte di responsabilità disciplinare;

Il codice di comportamento (d.P.R. n. 62 del 2013 e codici interni)

Nell’ambito della legislazione anticorruzione del 2012 è stato novellato l’art. 54, co. 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale ora prevede che ciascuna pubblica amministrazione definisca, previo parere obbligatorio del proprio organismo indipendente di valutazione e mediante procedura aperta alla partecipazione, un proprio ‘codice di comportamento’ che integri e specifichi quello “tipo” adottato dal Governo (col d.P.R. 62/2013) ai sensi del primo comma dello stesso articolo. Fondamentale per il nostro studio, la previsione di cui al comma terzo della norma in questione, ove si dispone espressamente che la violazione dei doveri contenuti nel codice di comportamento «è fonte di responsabilità disciplinare». Pertanto, il codice in esame è oggi autonomamente redatto da ciascuna amministrazione – e non più semplicemente allegato, come in passato, al CCNL – e detiene altresì autonoma valenza disciplinare, riferendosi ad obblighi sia lavorativi, sia extralavorativi del dipendente pubblico, anche regionale o locale, poiché lo Stato è legittimato a regolare doveri di comportamento di rilevanza nazionale e a comandare l’amministrazione (anche territoriale) ad adottare propri codici ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. l) (ordinamento civile) ed m) (livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire sull’intero territorio nazionale) della Costituzione.

La natura disciplinare e non più meramente etica del codice di comportamento per il personale “privatizzato” risulta confermata anche dalla previsione per cui l’eventuale inosservanza dello stesso può comportare licenziamento del lavoratore (art. 16 d.P.R. 63/2012, art. 54, co. 3, d. lgs. 165/2001). Apparirebbe così sedato anche l’antico dibattito inerente al valore giuridico del codice, essendo stati presenti indirizzi dottrinali volti ad escludere valenza disciplinare ad obblighi inseriti nei codici di comportamento che non fossero puntualmente recepiti anche dai CCNL. In qualità di fonte equiordinata al CCNL, il codice di comportamento deve essere comunque coordinato con la fonte contrattuale per evitare conflitti o sdoppiamenti di applicazione, in quanto si conferma il rinvio alla contrattazione collettiva per l’individuazione delle tipologie di sanzioni adottabili (art. 16, d.P.R. 62/2013); non manca comunque chi ha ipotizzato che tale codice dovrebbe esser ritenuto prevalente allo stesso CCLN, essendo attuativo della l. n. 190 del 2012, che, in qualità di fonte legislativa, prevale sul contratto collettivo. Stante la natura non legislativa dei suoi obblighi, ai sensi dell’art. 17, d.P.R. n. 62 del 2013, il codice di comportamento adottato va affisso telematicamente sul sito istituzionale e nella rete intranet dell’amministrazione, con l’espressa ratio di darne la più ampia divulgazione. Come precisato dalle linee guida dell’Anac, inoltre, l’aggiornamento dei codici spetta al responsabile anticorruzione con ausilio dell’U.P.D. e di eventuali stakeholder (essendo vietato il ricorso a consulenti esterni), mentre sulla loro applicazione vigilano in ottica preventiva i dirigenti capi-struttura, la struttura di controllo interna, il responsabile anticorruzione, gli uffici di disciplina e l’Anac stessa. In aggiunta, l’art. 2, co.3, del d.P.R. n. 62 del 2013, dispone l’estensione soggettiva (ammessa perfino mediante semplice richiamo per relationem) dell’osservanza dei precetti contenuti nel codice di comportamento anche a «tutti i collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o incarico e a qualsiasi titolo, ai titolari di organi ed incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche, nonché nei confronti dei collaboratori a qualsiasi titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell'amministrazione»; la violazione delle disposizioni contenute nel codice di comportamento, adeguatamente recepite dalle convenzioni/accordi/contratti che legano tal ultimi soggetti alla P.A., non potendo configurare responsabilità disciplinare, comporterà la risoluzione del contratto o la decadenza dall’incarico. Sarebbe opportuno che ciascuna amministrazione adottasse codici di comportamento che non plasmino semplicemente i dettami del codice generale adottato dal Governo, ma li adattino alle peculiari esigenze del settore e dei dipendenti in cui opera l’amministrazione stessa, con regole comportamentali differenziate anche in base alle specificità professionali, poiché l’adozione del codice rappresenta una delle “azioni e misure” principali di attuazione delle strategie di prevenzione alla corruzione a livello decentrato, come più volte rimarcato dall’Anac. Sono pochi i codici che si sono moderati su tali riferimenti: non si può far a meno ribadire, come anticipato nei paragrafi precedenti, che sarebbe appropriato al fine di attenuare i rischi di disparità di trattamento o di difetto di proporzionalità sanzionatoria, includere anche nei “codici interni” attuativi del d.P.R. n. 62, una correlazione tra illeciti elencati e sanzioni indicate (tra un minimo ed un massimo), sulla scia di quanto previsto per il codice disciplinare contenuto nel CCNL. Ferma restando la natura non vincolante dei pareri dell’Anac, i capi-struttura e l’U.P.D. potranno comunque chiederle chiarimenti in ordine a comportamenti dei lavoratori che appaiano comportare violazioni ai codici di comportamento, sempre nel rispetto, si intende, dei termini perentori di inizio e conclusione del procedimento disciplinare. Da ultimo, le norme contenute nei codici di comportamento valgono anche per i titolari dell’azione disciplinare, cosicché la violazione di precetti sull’obbligo di astensione per conflitto d’interessi tra sanzionante e sanzionato – derivante, per esempio, da legami di parentela, o notoria amicizia, inimicizia, o per frequentazione abituale – potrebbe originare contenzioso lavoristico e anche risarcitorio nei confronti dell’U.P.D. ad iniziativa del lavoratore. La legge: art. 55-bis, quater, sexies del d.lgs. n. 165 del 2001 e nuove ipotesi introdotte dalla legge anticorruzione n. 190 del 2012, dal d.lgs. n. 33 del 2013, dal decreto Madia n. 75 del 2017; Rispetto ad un sistema lavoristico oramai fortemente “decontrattualizzato” dalle recenti riforme, terza fonte di obblighi di rilevanza disciplinare è certamente la legge, poiché l’individuazione delle «infrazioni e delle relative sanzioni» conferita ai contratti collettivi da parte dell’art. 55, co.2, del d.lgs. n.165, non interdice intromissioni legislative additive, né, come analizzato in precedenza, redazioni unilaterali di codici di comportamento. La rivalorizzazione della fonte legislativa a discapito di quella contrattuale operata dalle riforme “Brunetta” e “Madia” sottende l’obiettivo di avvalorare i principi costituzionalmente rilevanti (v. art. 97, 98, 54, co. 2 Cost.) implicati nell’agere delle pubbliche amministrazioni anche quando operano con modelli privatistici. In questo modo, si è teso rimarcare le ricadute disciplinari sottese a condotte dei pubblici dipendenti, in un crescente processo di erosione della fonte contrattuale attraverso l’esplicita introduzione, da parte di quella unilaterale, di nuove fattispecie di illecito disciplinare ed indicazione delle relative sanzioni. Alcune di queste nuove fonti di responsabilità disciplinare, in realtà, non recano puntuale segnalazione della sanzione di volta in volta applicabile alle condotte tipizzate, cosicché sarà compito degli organi sanzionatori interni applicare alla valutazione del caso concreto le generali regole sulla proporzionalità. Inoltre, come già evidenziato dalla giurisprudenza segnalata in precedenza, non occorrerà affissione (cartacea o telematica) delle nuove statuizioni legislative – come avviene invece per i codici disciplinari o di comportamento – nel rispetto del necessario principio secondo cui ignorantia legis non escusat. Tra le numerose novità di origine legislativa possiamo senz’altro ricordare il novellato art. 55-bis, co. 7, Testo Unico, il quale prevede sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a un massimo di 15 gg per il lavoratore (dipendente o dirigente) che essendo a conoscenza, per ragioni d’ufficio o di servizio, di informazioni rilevanti per un procedimento disciplinare in corso, rifiuti di collaborare con l’Ufficio procedente o rilasci dichiarazioni false o reticenti. Ancora, l’art. 55-quater, novellato dal d.lgs. n. 75 del 2017, contiene condotte punibili con licenziamento senza preavviso come ad esempio: falsa attestazione di presenza in servizio o giustificazione dell’assenza dal servizio mediante false certificazioni; falsità documentali o dichiarative ai fini di fare ingresso nella P.A. o di ottenere progressioni di carriera; reiterazione di gravi condotte aggressive, moleste o minacciose nell’ambiente di lavoro; definitiva condanna penale che comporti interdizione perpetua (o estinzione ope legis) dai pubblici uffici; gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento; commissione dolosa o gravemente colposa dell’infrazione di cui al terzo comma dell’art 55-sexies. Quest’ultimo prevede, in particolare, sospensione dal servizio fino a un massimo di tre mesi (fatto salvo il licenziamento nei casi previsti) per i soggetti responsabili di mancato esercizio o decadenza dell’azione disciplinare dovuti a omissioni o ritardi, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, o ad irragionevoli o manifestamente infondate valutazioni circa l’insussistenza dell’illecito disciplinare. La legge anticorruzione del 2012, n. 190, all’art. 1, co. 12, dispone in capo al responsabile anticorruzione, responsabilità disciplinare (oltre a quella dirigenziale ed amministrativo-contabile) per il caso di commissione, all’interno dell’amministrazione, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, salva la prova di previa ed opportuna disposizione del piano anticorruzione e di corretta vigilanza sullo stesso. Il quattordicesimo comma dell’articolo in esame puntualizza che la violazione delle misure di prevenzione adottate col piano anticorruzione, costituisce illecito disciplinare per i dipendenti delle amministrazioni; la norma si correla strettamente all’art. 43 del d.lgs. n. 33 del 2103 (c.d. decreto trasparenza), il quale impone attività di controllo sugli adempimenti, da parte dell’amministrazione, degli obblighi di pubblicazione-trasparenza ivi previsti, contemplando anche possibili segnalazioni agli Uffici di disciplina in caso di violazioni. … E il regime di incompatibilità dei pubblici dipendenti (art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001)….Risvolti disciplinari sorgono anche in considerazione del regime di incompatibilità dei dipendenti pubblici. A garanzia di terzietà nello svolgimento della pubblica funzione, ma anche di preservazione delle energie psico-fisiche del lavoratore che operi a favore del datore pubblico, l’art. 98 Cost. impone che i pubblici dipendenti siano a servizio esclusivo della Nazione. La giurisprudenza sottolinea come il regime di incompatibilità non venga escluso dalla circostanza che il dipendente, oltre all’attività non autorizzata o autorizzabile dall’amministrazione, svolga correttamente anche il proprio incarico, poiché le disposizioni sull’incompatibilità aspirano alla salvaguardia delle energie lavorative, tendendo ulteriormente al miglior rendimento della prestazione assurta verso l’amministrazione datrice di lavoro. Nell’assetto normativo prospettato, l’art. 53, co. 7, del d.lgs. n. 165/2001(ma anche diversi CCNL), sanziona disciplinarmente lo svolgimento di attività extralavorative che non siano state (previamente) autorizzate dall’amministrazione di appartenenza. Il funzionario pubblico responsabile del procedimento che conferisca incarichi senza autorizzazione o che non si curi della pubblicazione degli incarichi conferiti (prevista dalla l. n. 190/2012 e dall’attuativo d.lgs. n. 33/2013), incorre in ogni caso in infrazione disciplinare ed il provvedimento relativo è nullo di diritto (art. 53, co. 8). Non vanno confuse con le attività “autorizzabili” da parte dell’amministrazione, quelle ritenute totalmente incompatibili dagli artt. 60 e ss. del d.P.R. n. 3 del 1953, espressamente richiamato dal sopracitato art. 53: dallo svolgimento di queste attività (commerciali, imprenditoriali, libero-professionali, cumulo di altri impieghi) deriva, dopo l’inosservanza di diffida a cessare la situazione d’incompatibilità entro 15 gg, la decadenza automatica – non disciplinare – dall’impiego, mentre nella circostanza in cui l’attività venga cessata successivamente alla diffida, sarà assunto procedimento disciplinare nel rispetto del rituale principio di proporzionalità. Infine, l’accertamento sul lavoratore in merito all’esecuzione di incarichi retribuiti non autorizzati, può essere esercitato attraverso istanze di chiarimenti o delucidazioni ad enti potenzialmente attributivi di incarichi pubblici o, ancora più agevolmente, mediante richiesta all’Agenzia delle Entrate o all’Inps di informazioni circa l’apertura di posizioni previdenziali dei dipendenti dell’amministrazione richiedente, senza che ciò violi la normativa sulla tutela della privacy, la quale pare retrocedere dinanzi ad esigenze accertative e sanzionatorie della P.A. ed in ossequio al principio di leale collaborazione tra amministrazioni.

Copyright © 2024 Omci - Organismo di Mediazione e Conciliazione Italia. Tutti i diritti riservati.
Joomla! è un software libero rilasciato sotto licenza GNU/GPL.
Copyright © 2024 Omci - Organismo di Mediazione e Conciliazione Italia. Tutti i diritti riservati.
Joomla! è un software libero rilasciato sotto licenza GNU/GPL.